Vittima tutt’altro che innocente dei cattivi maestri e dei pessimi governi
08 Giugno 2008
L’”Intervista sul fascismo” fatta più di trenta anni fa da Michael Ledeen a Renzo De Felice inizia con la domanda. “Dove e con chi hai portato avanti i tuoi studi di storia italiana? Chi riconosci come tuoi maestri?”. La risposta dello storico è la seguente: "E’ difficile dire chi siano stati i miei maestri; più facile dire con chi ho studiato. Ho studiato e mi sono laureato con Chabod, ho continuato a studiare con lui a Napoli e poi qui a Roma, negli ultimi tempi della sua vita. Detto questo, però, devo aggiungere che non credo che esistano delle persone che possono essere considerate letteralmente maestri dei propri allievi: se uno si definisce allievo, nel senso stretto della parola, allora è una persona priva di autonomia intellettuale”.
Si dà il caso, invece, che i professori universitari siano sempre pronti a dichiarare di essere stati allievi di qualcuno e di avere molti allievi, tutti, ovviamente, bravissimi. Si tratta del trionfo della sottomissione intellettuale, di un servilismo coltivato all’ombra della cooptazione, procedura purtroppo insostituibile nel reclutamento accademico. Bisogna allora tener presente che i professori sono nella stragrande maggioranza ex-allievi “messi in cattedra” da un maestro e a loro volta sono maestri impegnati a sistemare i propri (numerosi) allievi, un’attività questa prevalente e in molti casi esclusiva di molti universitari italiani.
L’attuale modello di governo degli Atenei consente alle maestranza universitarie di utilizzare le risorse destinate all’istruzione universitaria fuori da ogni controllo. Il regime assembleare, tanto amato dai docenti e dai ricercatori, instaurato sull’onda delle turbolenze post sessantottesche, costituisce il brodo di coltura per l’affermazione di bande dedite al saccheggio dei bilanci degli atenei. I numerosi casi di occupazione delle università da parte di famiglie più o meno allargate tanto nelle funzioni scientifiche che amministrative sono il frutto dell’uso formalmente corretto delle regole di governo attualmente in vigore. Sono assolutamente meritevoli di attenzione tutti gli sforzi diretti a dipingere l’università che vorremmo, ma risulta molto deludente la mancanza dell’inevitabile indicazione delle trasformazioni necessarie per conseguirla.
C’è una parola magica dietro la quale, almeno così sembra, i sedicenti riformatori pensano di nascondere la propria ipocrisia: l’autonomia. Questa viene intesa come non intergerenza assoluta nelle faccende interne agli atenei ed in particolare nella gestione delle risorse da parte di chi le mette a disposizione: il contribuente. Proprio chi ne denuncia l’inadeguatezza esibendo in modo strumentale confronti internazionali mai prova a spiegare i motivi dell’uso scellerato che ne viene fatto delle poche attualmente messe a disposizione dal Governo. Le proposte per fare uscire gli atenei dalla crisi economica in cui versano dovrebbero concentrarsi sulla modifica del modello di governo per adeguarlo all’autonomia finanziaria raggiunta sulla scia della riforma introdotta da Antonio Ruberti fino a quella fatale di Luigi Berlinguer.