Viva l’Italia dei narratori di provincia allergici alla letteratura da salotto

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Viva l’Italia dei narratori di provincia allergici alla letteratura da salotto

08 Maggio 2009

Lo sappiamo come sono fatti i grossi calibri della letteratura italiana. Devono ritirarsi in cerca d’ispirazione nella loro villa a Capalbio per scrivere un nuovo romanzo. Stanno sui giornali e in tv per vendere di più. Amano terribilmente essere al centro dell’attenzione, che sia un salotto privato o il podio più alto di qualche premio letterario. Sai che sballo una letteratura piena di letteronze alla Sex and the City, pippe adolescenziali e polpettoni di denuncia che farebbero semplicemente sbadigliare Leonardo Sciascia.

Ma per fortuna la letteratura italiana contemporanea non è stata e non è solo questo. Un critico libero da militanze come Generoso Picone una volta ha definito la provincia italiana “un’esperienza memorabile”. Ed è qui, sulle pianure e i lungomare, nelle piccole e operose città di provincia, che vivono e prosperano le nostre penne migliori. Scriveva Corrado Alvaro nel 1937: “Il lavoro di incubazione si compie nell’ambito della provincia. La provincia che fugge nella capitale la terra, il lavoro manuale, in cerca di impieghi dalle mani bianche, quando nella sua ricerca non porta vere e profonde qualità di vocazione e disinteresse, crea delle crisi morali molto complesse”. 

Più di sessant’anni dopo, uno scrittore caro agli dei come fu Pier Vittorio Tondelli, nel suo ultimo, crepuscolare romanzo sull’amore, la separazione e la morte – Camere separate: “Dal balcone può vedere i luoghi dove sono nati (Tondelli sta parlando di Antonio Delfini e Silvio D’Arzo, nda), solo in loro trova quei particolari aspetti di follia, noia, malinconia, che solitamente si attribuiscono alla gente della sua terra… a lui ora interessa la parte nascosta di questo carattere, quello che causa i suicidi, che crea gli alienati, i folli del villaggio. Solo in questi due scrittori lui trova descritta quella certa impenetrabilità del carattere emiliano, quella certa scostanza, quella bizzaria o lunaticità malinconica e assorta che ha conosciuto in suo padre e ora conosce in se stesso”.

Sono gente strana, appartata e indecifrabile, che si sentirebbe a disagio di fronte ai riflettori. “Vive in loro il forte senso di appartenenza ai propri luoghi – scrive Picone – scenari non muti di biografie sanguigne, magari strambe, autentiche ed eccessive, in qualche caso bruciate in archi brevi, intensi e irripetibili”. Come i contadini di Gente in Aspromonte o delle masserie pugliesi di Raffaele Nigro. La provincia emiliana di Silvio D’Arzo, quella modenese di Arturo Loria e Antonio Delfini, la Ferrara di Bassani, la Siena di Federigo Tozzi e Romano Bilenchi. Per il protagonista di Con gli occhi chiusi di Tozzi, sconnesso dalla realtà, e in preda ad allucinazioni dolorose che lo portano sempre altrove, “l’esterno era lì, intatto ed estraneo”.

Un discorso che per certi versi può valere anche al cinema, che si tratti di Zampanò o dello zio scemo di Amarcord salito sulla cima dell’albero per ululare al cielo tutto il suo disperato amore: “Voglio una donnaaa! Voglio una donnaaa!”. Puro genio fumettistico felliniano. Ha commentato Gianni Celati, che di “ululi” se ne intende (leggersi le avventure dell’emigrante “Ciofanni” nel Lunario de Paradiso): “Fuori dagli itinerari turistici, la letteratura italiana può vantare narratori di straordinaria purezza”.

E ancora il cinema di Scola e Maselli, di Piccione e Tornatore, la Bari sottotitolata di Andrea Piva e della sua Capagira, o i fumetti di Andrea Pazienza. Aveva ragione Alvaro: “Il nostro Paese non può avere altra civiltà che di intelligenza, qualità, tecnica, individualità, personalità” che non sia quella della provincia. Cercate per bene quando entrate in libreria e rovistate sulle bancarelle di Porta Portese o nei sottoscala di qualche reminders. Le sorprese non finiscono mai.