Vizio o virtù? Cronistoria delle ambiguità italiane in guerra
27 Febbraio 2010
L’ambiguità è uno stratagemma cui in politica e in strategia si ricorre spesso, ma forse mai nessuno vi ricorse quanto l’Italia. Fingere di scappare per poi colpire a tradimento è una “virtù” italica antica come gli Orazi e i Curiazi.
Cambiare campo correndo in soccorso dei vincitori è un vecchio vizietto italico. Nel lontano 1703 Vittorio Amedeo II di Savoia (che non a caso era chiamato “la Volpe savoiarda”), già alleato dei Francesi (aveva addirittura sposato la nipote di Luigi XIV), cambia fronte e aderisce alla Lega di Augusta, si allea con l’Imperatore d’Austria Leopoldo II e muove guerra alla Francia. Duecentododici anni più tardi, un suo discendente farà la stessa cosa a parti invertite.
In tempi moderni, il Regno d’Italia fa ricorso all’ambiguità prima ancora di nascere, fin da quando si chiama Regno di Sardegna. Nel 1853 Camillo Benso conte di Cavour decide che la ragion di Stato impone di partecipare alla guerra di Crimea con un contingente, esclusivamente per ricavarne vantaggi. Al Lamarmora (che poi in Crimea ci lascerà le penne, vittima del colera) che si sta per imbarcare a Genova e che chiede ordini a Sua Eccellenza, il Cavour risponde con una direttiva sintetica ma di inequivocabile precisione: “Beh, Generale, … proceda con l’audacia del buon senso!”. E così fra il 1853 e il 1856 i Bersaglieri vanno in Crimea e tornano coi fez rossi, i pantaloni alla zuava e le scimitarre, retaggio di quella campagna.
Nel 1889 l’ambiguità prende le forme dell’imbroglio più spudorato quando il trattato di Uccialli con il Negus abissino viene redatto in due modi diversi nelle due lingue: in italiano, all’articolo 17, si dice che l’Abissinia deve curare le sue relazioni esterne per mezzo della diplomazia italiana e in amarico sta scritto che il Negus può, se proprio lo desidera, servirsi degli italiani. In altre parole, in italiano il trattato dice che l’Abissinia è un protettorato italiano e in amarico si garantisce che continua ad essere indipendente. L’unico sbocco possibile in una situazione del genere è la guerra, e infatti nel 1896 l’Italia viene umiliata ad Adua.
Nel 1911 una classica guerra coloniale, quella di Libia contro l’Impero Ottomano, viene fatta passare per umanitaria, quando il Crispi dichiara “è intollerabile che sul mercato di Tripoli si vendano gli schiavi!”
Nel 1915-1918 si intraprende una “inutile carneficina” (parole del Papa di allora) per conquistare quei territori che l’Austria era pronta a cedere senza guerra, per di più entrando nel conflitto un anno dopo e cambiando alleanza all’ultimo momento. “Un’ignominia di cui la Storia non conosce l’uguale” esclama Francesco Giuseppe, ma lo dice solo perché non conosce ancora l’8 settembre.
Nel 1935-1936 un’altra guerra coloniale, quella abissina, viene camuffata per umanitaria allo scopo di abolire la schiavitù in Etiopia. Un nobile obiettivo da perseguire in tutti i modi, anche coi gas asfissianti.
Nel 1938 in Spagna non si mandano reparti militari organici in uniforme ma li si fa partire in borghese, camuffandoli da volontari, e il Corpo di spedizione stesso viene chiamato CTV (Corpo Truppe Volontarie). Siccome la presenza di quei “volontari” non è molto gradita nemmeno agli alleati falangisti, quest’ultimi danno all’acronimo CTV il significato di “cuando te vas?” (quando ti togli dai piedi?).
Nella seconda guerra mondiale, dopo un adeguato periodo di “non belligeranza”, si entra in guerra a fianco dei sicuri vincitori, i Tedeschi, perché “qualche migliaio di morti” ci avrebbero portato vantaggi, proprio come in Crimea. Peccato che i Tedeschi vincitori non lo erano affatto, e quando questo risulta chiaro si cambia campo con una mossa (quella dell’8 settembre 1943) che ancora oggi, nel terzo millennio, discredita l’Italia agli occhi degli ex nemici, degli ex amici e di tutti gli altri. Da notare che il Badoglio alla vigilia dell’armistizio, all’ambasciatore tedesco che gli chiede sospettoso “Ma non ci starete mica combinando qualche scherzo?” risponde serio: “Le giuro di no, Eccellenza, parola d’onore. Sono uno dei tre più vecchi Marescialli d’Europa; pensate che io potrei mai mancare alla mia parola d’onore?”
E inoltre la porzione 1943-1945 della guerra viene etichettata come “guerra di liberazione” anziché “guerra civile” quale in realtà è.
A riprova del fatto che in Italia l’ambiguità caratterizza in egual misura i governi monarchici e repubblicani, così come quelli liberali, quello fascista e quelli democratici, anche nel secondo dopoguerra si persevera: nel 1990-1991 si partecipa all’operazione “Desert Storm” contro l’Iraq per la liberazione del Kuwait, ma quella vera e propria guerra viene chiamata “operazione di polizia internazionale”.
Nel 1999 si partecipa alla guerra della NATO contro la Serbia per la liberazione del Kosovo, ma non lo deve sapere nessuno: né il Parlamento né l’opinione pubblica. E quando entrambi vengono a sapere dai giornali che l’Aeronautica italiana bombarda i Serbi, si dice che sta facendo “difesa aerea integrata”.
Nel 2006 la NATO (e con essa l’Italia) interviene in Afghanistan contro i talebani. A palazzo Chigi siede una eterogenea coalizione di centrino-sinistrissima detta “casa delle ambiguità”, che alle prese con problemi interni tace sul fatto che dal 4 maggio 2006 le regole d’ingaggio sono cambiate e non sono più quelle del peacekeeping.
Nello stesso anno si manda un contingente in Libano per interporsi fra Israeliani ed Hezbollah, ma gli “ordini” assomigliano a quelli che Cavour diede a Lamarmora 153 anni prima: l’ultima preoccupazione di UNIFIL 2 è impedire che l’Iran continui a rifornire di armi i fondamentalisti islamici.
E per concludere, nel 2010 si manda la portaerei “Cavour” ad Haiti per soccorrere i terremotati. Dove sta l’ambiguità, forse nel trasporto di materiale umanitario con una nave da guerra? Anche, ma non importa: quando si tratta di aiutare la popolazione che ha bisogno di tutto, ben vengano anche le portaerei.
Sta forse nel fatto che accusiamo gli Americani di essere patetici e di volersi fare belli agli occhi del mondo mentre noi stiamo facendo la stessissima cosa? Anche, ma poi quelle accuse vengono smentite. Sta forse nel fatto che il costo della missione verrà coperto per il 90% dalle ditte che hanno costruito ed equipaggiato la nave (Finmeccanica, Fincantieri, ENI,… che faranno così pubblicità al loro prodotto e a se stesse) visto che spremendo il bilancio della difesa non esce nulla? Nemmeno, un po’ di furbizia italica non guasta.
L’ambiguità stavolta sta soprattutto nel nome della nave. Se volevamo intitolarla al celebre padre della patria dovevamo chiamarla “Camillo Benso” o semplicemente “Benso”, ma era rischioso: la gente italica, educata da decenni di tv spazzatura, conosce a menadito tutti i protagonisti delle telenovele e del grandefratello, ma di fronte al nome Benso non avrebbe saputo cosa “bensare” e si sarebbe chiesta “e chi è costui?”.
Se invece volevamo intitolarla al rango nobiliare del suddetto, dovevamo chiamarla “Conte di Cavour”, come già facemmo con la nave da guerra della Regia Marina danneggiata dagli aerosiluranti inglesi a Taranto nel 1940 e distrutta definitivamente dalle bombe angloamericane a Trieste nel 1945. Ma questo “Conte” sarebbe stato politicamente scorretto, in tempi di repubblica. E così l’abbiamo chiamata ambiguamente “Cavour”, il che equivale ad averla intitolata ad un comune del Piemonte.