Voto Berlusconi perché non sopporto più la “Generazione Manette”
08 Maggio 2011
“In all my years of judging
I have never heard before
Of someone more deserving
Of the full penaltie of law.”
(Roger Waters)
L’imprinting politico di un ragazzo avviene intorno ai tredici anni: a quell’età (prescindendo da precocità particolari o particolari torpori) egli comincia di solito a guardare qualche telegiornale, a imparare i nomi dei partiti e dei loro esponenti più noti, a maturare simpatie e avversioni. In questo processo, ovviamente, il giovane è influenzato dai fatti di cronaca corrente, dalla scuola, dalla famiglia e dai mezzi di comunicazione di massa. Quando io avevo tredici anni i mafiosi ammazzarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due magistrati abili e coraggiosi. Questo fu probabilmente il primo, importante evento di cronaca che produsse una forte impressione su di me e sui miei coetanei: l’impressione fu resa più incisiva dalla messe di celebrazioni che seguì questi vili attentati. A scuola, in televisione, sui giornali si creò quello che non esito a definire un culto intorno ai due giudici vilmente assassinati: e in un culto vi è sempre una punta di irrazionalità. Così, i primi eroi che l’attualità ci propose furono due magistrati.
Un aspetto secondario di quella grande emozione pubblica non è da sottovalutare, specie se si riflette sulla percezione che della vicenda potevamo avere noi ragazzini: benché nessuno facesse accuse precise, si “sentiva nell’aria” che dietro la morte di Falcone e Borsellino doveva esserci un disegno politico; i colleghi dei due magistrati uccisi parlavano con insistenza di altissimi livelli di complicità tra mafia e partiti, tutti avevamo visto film e sceneggiati in cui l’ordine dei delitti di mafia partiva da loschi “onorevoli”, raffigurati in sontuosi salotti in penombra e spesso fisicamente somiglianti a reali politici democristiani che si vedevano al telegiornale. A distanza di vent’anni, ancora si indaga sui rapporti tra mafia e politica, cambiando vorticosamente tesi ogni anno e basandosi sulle testimonianze di risaputi ballisti o di assassini incalliti. Nulla di certo sembra essere stato stabilito: ma la prima impressione, come il primo amore, non si scorda mai. Così, la cultura di massa formava il nostro giudizio sui politici, e lo formava piuttosto negativo. Poco dopo, scoppiò un grave scandalo di corruzione che aveva il suo epicentro a Milano: partita dalle malversazioni di un affarista di secondo piano con agganci politici, l’inchiesta “Mani Pulite” divenne presto un caso nazionale, e smascherò un sistema di corruzione in cui tutti i partiti di governo, e specialmente la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, apparivano coinvolti.
Ancora una volta, un manipolo di magistrati caparbi e audaci apparivano contrapposti a un ceto politico con tratti criminali: stavolta, però, lo affrontavano direttamente. Ovviamente, non vi era alcuna relazione diretta tra la tragica vicenda di Falcone e Borsellino e l’affare “Mani Pulite” (che avrebbe rivelato i suoi aspetti tragici solo nel tempo), ma era naturale cogliere una continuità ideale, più che nei fatti, nel romanzo che dei fatti inevitabilmente si fa. C’è bisogno di dire che su un ragazzo di tredici-quattordici anni storie del genere esercitano una suggestione profonda? Era come se l’ispettore Callaghan si fosse improvvisamente materializzato: solo, era più tracagnotto e parlava con un buffo accento molisano. Era come se Batman fosse saltato giù dai tetti del Duomo di Milano, irti di guglie come i grattacieli di Gotham City. Io ero meridionale e di destra: no, siamo sinceri, a quell’età ero proprio fascista, per ragioni estetiche e per reazione alle martellanti, mielose lezioni sulla famenelmondo e su martinlutherking (i danni che fanno le professoresse progressiste andrebbero studiati su vasta scala). Quando tutti quei politici di centro e di sinistra e quegli industriali della “Milano da bere” si ritrovarono alla sbarra, arrestati all’alba come criminali comuni, non potevo fare a meno di provare un certo compiacimento: per di più, ero troppo giovane per votare, ma il partito a cui andavano le mie simpatie cavalcava l’onda definendosi fieramente “il partito dalle mani pulite” (il che era probabilmente vero, ma va anche ricordato che quel partito lì non governava niente, tranne forse il comune di Predappio).
Quel senso di compiacimento, di cui oggi mi vergogno, era assai comune tra i miei coetanei. Anche i ragazzi di sinistra, meno numerosi ma molto più appariscenti, ne erano contagiati: infatti le accuse di corruzione lambivano appena il Partito Comunista (c’è chi dice per una certa condiscendenza, o perché quel partito i soldi li prendeva da un’altra parte, o magari perché davvero c’era più onestà e disciplina, come si fa a escluderlo?) e allo stesso tempo “Mani Pulite” toglieva alla sinistra un bel po’ di castagne dal fuoco. Infatti, si era nei primi anni novanta, il comunismo non piaceva più a nessuno (Deo gratias!) e un partito deve pur avere una ragion d’essere, un tema per i manifesti e i comizi: ecco, la nuova ragion d’essere della sinistra italiana era l’onestà – anzi, come si imparò a dire con un interessante neologismo, la “legalità”. Ma torniamo ai miei tredici-quattordici anni. I telegiornali cominciavano sempre con servizi su deputati e senatori prelevati a casa, che si vedevano entrare nelle auto della polizia con le cravatte slacciate e un impermeabile sui polsi a coprire le manette. Un famoso imprenditore, la cui faccia storta e la cui favolosa ricchezza tutti conoscevamo, si sparò un colpo per evitare l’umiliazione dell’arresto. I giornali usavano i titoli come artiglieria. C’era uno che agitava un cappio in parlamento per esprimere con grande efficacia che era giunta l’ora fatale per un’intera classe politica (per contrappasso, il partito di quell’aspirante boia si ritrovò poi a proteggere i presunti corrotti e dovette imparare l’ABC del garantismo).
Uscivano film sui socialisti corrotti e sui loro portaborse. Giornalisti con nomi esotici e una raffinata erre moscia dibattevano sulla crisi della repubblica con toni degni di un cronista dell’anno mille. Altri imbastivano purghe televisive, riesumando pratiche suggestive come il processo in effigie e il giudizio per acclamazione. I cantautori più famosi e engagés (si tenga conto che i cantautori, in Italia, sono più influenti dei filosofi) la piantavano finalmente con Che Guevara per scrivere pezzi colmi di immagini apocalittiche sulla tardiva, ma inesorabile punizione dei corrotti e delle loro “etère di stato”. A scuola, ci portavano tutti in aula magna a sentir parlare anziani giudici, sacerdoti della costituzione, e ogni tanto ci passavano le fotocopie degli articoli di Repubblica. I preti dicevano che se uno non crede alla Trinità poco importa, ma evadere le tasse, quello poi no, è proprio sbagliato.
La visione del mondo di un ragazzo di quell’età si forma in modo strano, in una continua sovrapposizione di realtà e finzione: per noi, era di grande importanza la satira. E la satira, come si può intuire, con questa storia di corruzione ci andava a nozze: noi leggevamo Cuore, Comix, le Formiche che s’inc…, segnavamo i compiti sul diario Smemoranda, ed era tutto un fiorire di battute e vignette sui politici corrotti, e su come i socialisti temessero perfino l’ora legale. Era tutto un mondo molto arguto, che accompagnava il reprobo al cappio con lazzi e motteggi. Irresistibile. Nasceva così la Generazione Manette, quella degli attuali trentenni o giù di lì: di destra o di sinistra, cattolici o laici, statalisti o mercatisti, ma tutti profondamente interessati alla moralità del mondo politico, attenti alle notizie su tangenti, raccomandazioni e favoritismi, avidi lettori di cronache sulla vita privata dei governanti, di solito piuttosto pruriginosa; e tutti innamorati delle toghe. Stranamente, a casa mia non si partecipava a questo tripudio.
Che io sapessi, i miei genitori erano “liberali” (che in Italia vuol dire “brave persone con un grande rispetto per il prossimo”) con venature socialiste: trattavano il mio estremismo come una malattia di crescita, e avevano ragione. Non rammento di aver mai sentito dire a mio padre “Ben gli sta”, commentando l’incarcerazione di un politico, come facevano con panciuta soddisfazione i padri dei miei amici (che poi, per chi votavano questi signori? Non credo che fossero tutti missini o comunisti, in Sicilia poi… Forse si astenevano). No, a casa erano messi in risalto aspetti che i media spesso trascuravano: davvero, ci si chiedeva, c’è bisogno di mettere in prigione quell’anziano senatore? Non basta sequestrargli il passaporto e tutti i soldi? Alla notizia che “se n’era ammazzato un altro” (uno infilò la testa in un sacchetto e si lasciò soffocare, mentre era in carcere) si reagiva con disappunto. E poi, quelli che confessavano uscivano subito, e prima ancora se accusavano qualcun altro: una pratica senz’altro utile alle indagini, ma che inequivocabilmente richiama più la polizia di Napoleone III che un moderno stato di diritto.
Cominciava a sorgere il sospetto che la “legalità” si stesse costruendo sulle rovine della legge. Seguirono segnali che gettavano un’ombra sospetta sulle infatuazioni dei nostri anni verdi: alcuni dei magistrati che si erano distinti in quegli anni tonanti conducendo inchieste contro i politici, a distanza di pochi anni, si insediarono sui seggi che i loro indagati avevano dovuto ignominiosamente abbandonare; magari, con un aiutino del partito che l’inchiesta aveva lasciato in pace. Uomini pubblici inquisiti per corruzione, collusioni mafiose e altri misfatti risultavano innocenti al termine di processi lunghissimi, presumibilmente assai costosi e comunque devastanti per le loro vite professionali e pubbliche. A un certo punto venne fuori che un anziano giudice (non uno di quelli eroici), che era accusato di aggiustare le sentenze per favorire i criminali mafiosi, non era stato mai scorretto, al limite pignolo: ma intanto il suo cognome era finito in una canzone come contrario di “giustizia”. Un importante ministro democristiano, assolto da imputazioni mafiose e sempre costretto a tornare a difendersi per reiterati ricorsi in appello dei suoi accusatori, fu infine proclamato innocente. Un famoso socialista, che pareva aver profittato illecitamente di certi lavori in un porto, fu assolto dopo diciassette anni di indagini e processi.
Degli innumerevoli indagati di “Mani Pulite”, almeno mille vennero prosciolti (i condannati erano ancora più numerosi, ma mille innocenti sotto processo sono comunque uno scandalo, no?). Il capo del Partito Socialista, che i vignettisti ritraevano in uniforme mussoliniana, si era rifugiato in Africa per sfuggire ai processi: era responsabile di un mucchio di illeciti commessi dal suo partito, ma la sua leggendaria villa (descritta come una reggia traboccante di bottini) non era diversa da quelle di parecchi medici che conoscevo. Ecco, questo era un elemento inquietante: dopo quest’ubriacatura di moralità pubblica, in un clima in cui si poteva finire in galera per avere post-datato un assegno, i nostri conoscenti non sembravano cambiare abitudini (in materia di ricevute e scontrini, favori ai parenti, scelte di voto decisivamente e legittimamente influenzate da interessi privati). Il moralismo era una cosa piuttosto astratta, era come un paio d’occhiali da presbite che uno indossa per leggere il giornale e poi rimette sul tavolino. Ogni tanto, un conoscente si trovava nei guai, magari per una disattenzione in una pratica: in questi casi, le famiglie “pure” si disperavano esattamente come quelle “impure”. La fiducia incrollabile nella giustizia, che i moralisti esibivano quotidianamente, non reggeva alla prova di un parente in cella.
Amministratori locali di quasi tutti i partiti furono trascinati in ceppi, persero le loro cariche, affrontarono lunghe carcerazioni “preventive” (uno strumento che, in sostanza, era stato tramutato da misura di sicurezza in strumento d’indagine analogo alla tortura, in quanto fiaccava le resistenze di questi uomini non troppo duri) e sovente riemersero dopo anni, emaciati, immiseriti e balbettanti ma assolti – mentre qualcun altro si era preso le loro città e le loro regioni. Ministri, che si trovavano coinvolti in inchieste su appalti e tangenti, si dimettevano per orgoglio e poi magari non venivano nemmeno processati. Altri erano inquisiti sulla base di frasi dal significato vago pronunciate al telefono, in conversazioni personali che venivano registrate (spesso da agenzie private) e poi trascritte sui giornali. Nulla era tanto precario quanto il potere politico, conquistato tramite elezioni. Ovviamente, la cosa non si limitava ai politici: divenne famoso, tra i garantisti, il caso di un manager che si era presentato spontaneamente agli inquirenti per “collaborare” ed era stato tenuto quattro mesi in cella, come premio. Al sud, gli imprenditori vittime dell’estorsione sentivano la loro posizione avvicinarsi sempre più a quella dei loro aguzzini.
Per trovarsi indagati per mafia, era sufficiente conoscere un mafioso. Le intercettazioni telefoniche e ambientali, da strumento d’indagine eccezionale per il suo carattere oltremodo invasivo, erano divenute più o meno l’unico metodo d’inchiesta, usate abbastanza a casaccio su persone non ancora sotto indagine perché non si sa mai. Un pubblico ministero, per una bizzarra distorsione del concetto di competenza territoriale, si occupava quasi esclusivamente di star dello spettacolo. L’ambizione politica dei magistrati, d’altra parte, era sempre meno mascherata. Uno di loro aveva fondato un partito, i cui esponenti non parlavano d’altro che di trasparenza e onestà: ogni tanto si chiacchierava su episodi non immacolati della vita e della carriera di questo ex-giudice, e lui si arrabbiava moltissimo (faceva bene: avrebbe fatto meglio a riservare agli altri la stessa discrezione che pretendeva per sé). Altri avevano scelto di militare nei partiti della sinistra, che cambiavano continuamente nome. Altri ancora, e questo era il caso più preoccupante, praticavano la militanza politica senza smettere di ricoprire i loro incarichi giudiziari: potevi sentirli dichiarare, a una manifestazione, che Tizio era una minaccia per la nazione e poi vederli seduti in tribunale a giudicare lo stesso Tizio per qualche reato, e allora era inevitabile dubitare della loro serenità di giudizio.
Le organizzazioni dei magistrati intervenivano ogni giorno sulle vicende politiche, i supremi organi disciplinari di questa importante categoria non facevano mistero di osteggiare governi e maggioranze parlamentari “sgradite”, e si sentiva dire che la loro associazione aveva diritto di veto sulla scelta dei ministri della Giustizia (si tenga conto che anche dalle parti dei garantisti fiorivano malignità e sospetti). Certe procure si arrogavano un ruolo di primo piano nella politica estera, aprendo indagini su fatti accaduti in Iraq o su operazioni di controspionaggio eseguite in territorio italiano con il permesso del governo. Inchieste giudiziarie fornirono il casus belli che condusse alla caduta di due esecutivi (uno di destra e uno di sinistra), e dopo un po’ quelle inchieste finirono nel nulla. Nel frattempo, era esperienza comune che i reati contro le persone e i patrimoni restassero sovente impuniti: l’apparato giudiziario (e poliziesco) sembrava troppo indaffarato in inchieste e processi da prima pagina per rispondere alla normale esigenza di sicurezza e di giustizia dei cittadini.
Quando non riuscivo a ottenere che una pattuglia intervenisse su un gruppo di ragazzi che schiamazzavano aggressivamente intorno alla casa dei miei genitori, un amico avvocato mi suggerì di sporgere denuncia per “schiamazzi notturni di stampo mafioso”: così, mi disse, ti mandano l’esercito. Una battuta, ma rende l’idea. Molti crimini non venivano denunciati, a tal segno ricorrere alla giustizia appariva una perdita di tempo a certi strati della popolazione. Intanto, nella scena politica italiana tutto era cambiato: l’irruzione di Silvio Berlusconi, un uomo straordinariamente ricco e potente dal profilo politico inizialmente piuttosto ambiguo, aveva polarizzato l’attenzione di tutti. E segnatamente dei giudici fustigatori della corruzione italiana (che sarebbero piaciuti molto a Dante Alighieri, o forse no): il ricchissimo imprenditore delle televisioni commerciali era già stato sotto la lente dei giudici, ma dopo la sua invasione della politica l’attenzione delle procure nei suoi confronti si fece spasmodica.
Berlusconi, nel corso di due decenni, è stato accusato di qualunque cosa: di pagare tangenti, di intimidire pubblici ufficiali, di usare mezzi dello Stato per loschi traffici personali, di trafficare droga, di proteggere mafiosi, di aver coperto stragi, corrotto giudici e testimoni, sedotto bambine, commesso truffe su programmi televisivi, calciatori e palazzi… Non è mai stato condannato, forse perché è innocente o forse perché è molto potente: di fatto, nella sua doppia veste di imputato e politico assai influente, si è più volte fatto scudo di modifiche legislative che stralciavano processi in atto contro di lui (le cosiddette leggi ad personam, che nessuno discute nel merito: per i berlusconiani sono giuste e per gli antiberlusconiani sono terribili). Certi magistrati si sono occupati solo di lui per lustri, collezionando sconfitte giudiziarie o politiche e mantenendo tuttavia il diritto di scegliersi i “casi” per proseguire la loro crociata. Sempre, gli accusatori si sono adoperati a dare alle inchieste la massima pubblicità: quando un assassino accusò Berlusconi di complicità con la mafia, i magistrati ebbero cura di far trasmettere la deposizione in tutto il mondo (alcuni giornalisti dissero di essere stati invitati in tribunale).
La Generazione Manette si schierò compatta contro Berlusconi, dopo un tentativo iniziale (piuttosto goffo) di cavalcare lo sdegno moralistico da parte del Cavaliere. Non c’è da stupirsene: era il nemico perfetto, un miliardario un po’ spaccone, con amicizie compromettenti, un giro di donne pazzesco, ville su tutte le isole dei sette mari; e in più un politico di successo, apparentemente intramontabile a dispetto dei suoi esigui successi come governante. La sola idea che tanto potere avesse un’origine criminale doveva eccitare le menti dei miei coetanei manettari come una pole dance ben fatta. Ma per me l’incantesimo si era spezzato. Troppe accuse, alcune davvero fantasiose, rivolte al Cavaliere nel corso di vent’anni mi avevano reso insensibile – come quelli che rimangono sordi dopo un bombardamento – così che non credevo più nemmeno a quelle plausibili.
A pensarci bene, non è l’ultima ragione di allarme questa: che la notizia di un’inchiesta, o addirittura di una condanna, sia accolta con fiducia o con scetticismo a seconda delle simpatie politiche di chi ascolta. Anche di questo, forse, l’attivismo di certe Procure può essere definito in parte responsabile. A volte, in un paese affetto da un’insanabile vocazione alla divisione e alla guerra intestina, due poteri dello stato si affrontano in campo aperto: di solito, questo è chiamato golpe. In merito, propongo un confronto con un caso ipotetico (ma non tanto): mettiamo che gli atteggiamenti provocatori, le frequenti incursioni nel campo legislativo e politico di cui i magistrati italiano hanno fatto il loro pane quotidiano fossero compiute da un’altra “casta” di potenti servitori dello stato, per esempio dai militari.
Mettiamo che un generale dei Carabinieri intervenga a un congresso incitando i suoi colleghi a “resistere” contro il governo; che il Battaglione San Marco, in vista di una riforma che lo riguarda, prometta “reazioni epocali”; che la Marina si rifiuti di eseguire gli ordini ricevuti denunciandone l’incostituzionalità. Quale sarebbe la percezione di questi comportamenti? Certa letteratura complottista su Gladio e sul minaccioso “tintinnar di sciabole” degli anni settanta si basa su molto meno. Negli anni, considerazioni come queste mi hanno allontanato molto dal sentire comune della Generazione Manette: mi sono messo a leggere Ferrara, a votare Berlusconi, a seguire con attenzione le vicende giudiziarie più scabrose; ci sono politici e affaristi coi quali non andrei mai a pranzo, ma che mi ispirano improvvisa compassione appena finiscono sotto indagine; e ho una specie di riflesso pavloviano per cui, appena Repubblica prende di mira qualcuno, quello mi comincia a far simpatia.
Il garantismo, il timore che in Italia la pressione giudiziaria sulla politica stia vanificando la democrazia sono diventati la cifra fondamentale delle mie opinioni politiche: di fronte a questo tema, gli altri impallidiscono, così che mi trovo disposto a “turarmi il naso” per gli innumerevoli difetti della destra (dal palese appannamento del Cavaliere al rozzo tatticismo dei leghisti) pur di non scendere a compromessi con il sistema di forze che ha nella magistratura politicizzata la sua spina dorsale e nel CSM la sua stanza dei bottoni. Ma diventa sempre più difficile.