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Waiting for the man

04 Aprile 2011

April is the cruelest month. Per l’Occidente è stato forse più crudele marzo 2011. Dieci anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, 22 dopo il crollo del muro di Berlino, appena tre dal big bang economico, due eventi assai diversi accomunati solo dal lasso di tempo in cui hanno preso corso, la guerra in Libia e la paura nucleare dopo lo tsunami giapponese, ci hanno messo di fronte al fatto che ancora non abbiamo imparato a districarci tra capacità di decidere e stato di necessità. Viviamo in un mondo tentennante di fronte alle minacce e in un contesto internazionale senza leadership. Non è forse Il peggiore dei mondi possibili. Ma il migliore è solo quello in cui si fanno i conti con le circostanze, per aspre che possano essere. Circostanze politiche, ed esistenziali, che sono alla base del dilemma quotidiano tra sicurezza e ingenuità. E’ in gioco la salvezza della società, non dell’anima, dunque la capacità di governo

L’Occidente è in piena confusione. Nell’aftershock giapponese la difficoltà di governare la paura è stata inversamente proporzionale alla capacità di governare gli esiti dell’incidente. I tecnici giapponesi si calavano nelle centrali, a bordo degli elicotteri sfidavano la nube radioattiva, un popolo decoroso affrontava la calamità, mentre i leader occidentali apparivano nel panico per l’inevitabilità delle cose del mondo. Un incidente di estrema gravità provocato da un inaudito terremoto e tsunami è sembrato una catastrofe irreversibile, una apocalisse come la ha definita Gunter Ottinger. E’ come se la possibilità di rimediare al peggio con l’ingegno e la tecnologia fosse svalutata per principio. E’ certamente vero che la gestione della sicurezza nucleare ha bisogno di un tipo di società credibile e trasparente capace di garantire i controlli necessari come sono le democrazie. Ma è altrettanto vero che se le élite di governo rinunciano ad esercitare una razionale moral suasion, le democrazie perdono il loro vantaggio, la capacità di conoscere come stanno le cose e di vincere collettivamente il panico. Il modo brucia energia anche quando riflette sulla sicurezza (delle centrali e non solo), quando aspira alla libertà e quando desidera la pace, non solo quando produce sviluppo e ricchezza. Il prezzo e il rischio della produzione di energia sono pari al prezzo e al rischio del nostro vivere quotidiano.

L’Occidente è in piena confusione. L’eclissi del comando sia negli Stati Uniti che in Europa è patente, sia pure sotto il rombante tentativo di rimediare alla tragedia libica con l’arte di cavarsela con decisioni a metà. La protratte oscillazioni strategiche nell’affrontare la crisi mediterranea e, da ultimo, il da farsi con Gheddafi hanno ragioni profonde. Nascono anzitutto dall’illusoria confusione tra leadership condivisa e leadership riluttante. Gli Stati Uniti sono apparsi impigliati in una irresolutezza amletica .imbarazzante. L’invocato multilateralismo ha offerto prove tragicomiche. Dopo avere intimato a Gheddafi di lasciare il potere, di fronte alla resistenza del rais, Stati Uniti ed Europa non avevano altra possibilità che dar corso all’intervento militare. E’ probabile che fin dall’inizio sia stata sottovalutata questa evenienza, come se Obama e i leader europei si fossero affidati alla speranza di un cedimento di Gheddafi.

Ogni questione, un tempo familiare all’Occidente, sul merito dell’intervento militare è stata messa da parte. Ci si è concentrati solo sulle precondizioni di legittimità, cioè su una decisione politica che avrebbe salvato la faccia dell’Occidente: una risoluzione del Consiglio di sicurezza, l’appoggio della Lega araba. A giudicare dal frettoloso e caotico avvio delle operazioni, era stata contemplata più la difficoltà di raggiungere un accordo, evenienza che avrebbe messo al riparo gli Stati Uniti dal dover prendere l’iniziativa, che una possibilità di successo. La risoluzione dell’Onu ha inizialmente risparmiato a Washington un riflesso isolazionista dopo l’Iraq, ma l’annuncio di un hand over nei confronti di una Nato senza bandiera, cioè di fatto alla Francia ripropone l’obiettivo rinunciatario e scatena il disordine nella pseudocoalizione.

Il WsJ se l’è presa con la dottrina Obama. Critiche a parte, è sicuro il presidente americano di poter restare davvero ai margini di questa operazione? L’oltranzismo del presidente Sarkozy ha fatto il resto. Gli aerei francesi partiti troppo in fretta per bombardare i blindati libici sono stati inutilmente offensivi prima che i cruise americani avessero preso di mira la logistica della contraerea libica. E hanno quindi bombardato sul nascere anche la coalizione. La questione del chi comanda per quale obiettivo è esplosa con modalità “europee” che ricordano le dispute al tempo della crisi bosniaca, ma la faccenda è troppo seria per relegarla nell’europollaio. Non si tratta infatti solo di registrare le divisioni tra un Germania recalcitrante a un ruolo europeo e una Francia ansiosa di riparare al collasso dell’antica grandeur o dell’inesperienza del giovane Cameron. Oramai il problema non è tanto aver programmato tra tante stupidità l’intervento nel momento più tardivo e meno propizio. Il punto più delicato è la sostanza di una risoluzione che autorizzando “tutte le misure necessarie per proteggere i civili sotto minaccia”, presta il fianco a interpretazioni contraddittorie, come dimostrano i ripensamenti ad ore alterne di Russia e Lega Araba e spingono le potenze impegnate nel conflitto in un nuovo cul de sac.

All’avvio delle operazioni il presidente Obama, risoluzione alla mano, ha escluso che il fine sia un regime change, mentre Sarkozy ha esplicitamente ammesso che “si andrà fino in fondo”. E’ una incertezza di fondo che aumenta una pericolosa schizofrenia delle previsioni. Si andrà fino in fondo? Allora è evidente che l’obiettivo, per quanto non dichiarato, è il regime. La situazione è allo stato di oggi quella che è sempre stata: se Gheddafi resiste, solo un intervento diretto di terra, può consentire il risultato. Non si andrà fino in fondo? In mancanza di alternative strategiche ad un intervento a metà, remote soluzioni diplomatiche con un Gheddafi ridotto a miti consigli, avremo creato un disastro nel Mediterraneo, una spartizione dagli esiti imprevedibili della Libia e un pericoloso e inferocito nemico scatenato contro l’Occidente. Il primo comandamento per qualsiasi coalizione che usi la forza militare è assicurare il successo. E ora anche noi dobbiamo avere successo. In Iraq e in Afghanistan l’Occidente ha imparato che può essere relativamente facile scalzare un regime. La parte pi complessa e lunga è riuscire a promuovere e stabilizzare una credibile alternativa. L’intelligence in Libia e nel resto della sponda sud del mediterraneo non ha dimostrato di possedere le chiavi della situazione. I leader occidentali non sanno quasi nulla dei ribelli libici e poco di quel che accade sul terreno. In altre parole nessuno sa a che cosa stiamo andando incontro.

(tratto da Longitude)

* direttore di Longitude