Walter vince le primarie e Romano perde sul welfare

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Walter vince le primarie e Romano perde sul welfare

15 Ottobre 2007

A voler andare (e neanche tanto) a fondo degli aspetti
organizzativi, gestionali e di quelli riguardanti l’esito del referendum, si
potrebbero fare molti rilievi critici. Soprattutto sui numeri. Probabilmente i
lavoratori e i pensionati votanti non sono stati cinque milioni. E’ singolare,
infatti, che il target assunto abbia coinciso con il risultato effettivo.
Probabilmente, poi, la percentuale dei sì non è stata tanto elevata come hanno
dichiarato le segreterie confederali. Per dirla con il grande Totò la somma non
fa il totale. Sia per quanto riguarda il numero dei votanti sia la percentuale
dei voti favorevoli, infatti, non sono stati forniti dati parziali credibili
(come addendi del calcolo di cui si conosce unicamente il risultato finale)
tali da comprovare sia l’uno che l’altro esito.

Ammesso e non concesso che si
sia trattato solamente della consultazione della parte più fedele e militante
della base (in queste operazioni le confederazioni non riescono neppure a
coinvolgere la gran parte dei loro iscritti) l’operazione-referendum non va
sottovalutata. Solo un Governo pasticcione 
come l’attuale%2C perennemente all’inseguimento dell’ala “trucida”
della maggioranza, avrebbe potuto vanificare il successo politico importante
che i sindacati gli avevano regalato. I pesanti ritocchi, recati nel disegno di
legge, ai contenuti dell’intesa in materia di lavori usuranti e di contratti a
termine hanno sollevato le protesta della Cisl e della Confindustria, mentre la
Cgil – a quel punto – si è messa a rivendicare alcuni mancati inserimenti,
relativi alle pensioni, che, se accolti, finiranno per peggiorare ancora di più
il testo del provvedimento. 

In sostanza,
l’Esecutivo  ha “mutilato” la netta
vittoria delle forze riformiste del sindacato, le quali (bon gré mal gré)  avevano fatto emergere una verità scomoda
anche per loro: e cioè che i lavoratori (persino quelli più conservatori che
militano nei sindacati) hanno ormai assimilato questioni cruciali come
l’innalzamento dell’età pensionabile e l’esigenza di un mercato del lavoro più
moderno e flessibile. Al dunque, la classe lavoratrice è apparsa più matura di
tanti che pretendono di rappresentarla e di parlare in suo nome.  Quali altri auspici pretendere per picchettare
il D Day  del Partito democratico ?

In
Consiglio dei ministri, i “quattro dell’Ave Maria” ovvero i
rappresentanti dell’ala impropriamente definita radicale della gauche non erano
stati in grado di tenere una posizione comune. Così,  il principale significato politico dell’esito
del referendum stava proprio nella sconfitta della sinistra conservatrice. Una
sconfitta cocente, di dimensione inconsueta ed imprevista; per di più sancita
nel più doloroso dei modi e consumata non nelle urne o in Parlamento, ma su di
uno scenario in cui erano stati protagonisti milioni di lavoratori. Se l’ala
rosso-verde aveva perso, non aveva vinto (o meglio aveva vinto per interposta
persona) la componente riformista, la quale (nonostante l’avvento del Partito
democratico) rimane tuttora rinchiusa nei suoi “atri muscosi e fori
cadenti”. In campo era dovuto scendere il sindacato. Si erano mobilitate
tutte e tre le confederazioni storiche, compresa la Cgil, nonostante che
l’organizzazione di Epifani “avesse il morto in casa”. Fosse costretta,
cioè, a misurarsi con gravi dissensi interni: quegli stessi che in altre
occasioni l’avevano confinata nell’immobilismo. 
Stavolta, il sindacalismo riformista non si era  lasciato intimidire, aveva esposto le proprie
ragioni in una situazione di oggettiva difficoltà ed aveva conquistato la
fiducia dei lavoratori. Quale occasione migliore per tenere duro, per incalzare
ancora di più le componenti reazionarie della sinistra ? Tanto più che – era
assolutamente evidente ormai –  le
formazioni neocomuniste erano intenzionate a ricercare le rivincita con la
manifestazione del 20 ottobre. 

Nei
giorni scorsi, gli esponenti del Prc  si
erano impegnati nell’individuazione di percorsi di mediazione con l’ala riformista.
Ma la spregiudicata ed irresponsabile “concorrenza” del PdCI (che non aveva
esitato neppure a mettere in scena la pagliacciata dei brogli) ha reso cauto il
gruppo dirigente “rifondatore”, anche in vista dell’esibizione muscolare
del 20 ottobre, in occasione della quale i “movimenti”, allevati
nell’odio e nel rancore, potrebbero addirittura rivoltarsi contro gli stessi
promotori considerati rinunciatari e propensi al compromesso. Ecco perché è
stato oltremodo sbagliato  inserire delle
code velenose  nel disegno di legge (vi
sono addirittura norme di delega che consentirebbero al Governo di riscrivere
molte parti della Legge Biagi).

Prodi
non ha ottenuto la tregua con la sinistra (la quale si sente autorizzata ad
insistere proprio assistendo ai cedimenti preventivi del Governo) mentre ha messo
in allarme le parti sociali e, segnatamente, i sindacati, ai quali tutto si può
chiedere, ma non di accettare meno di quanto l’Esecutivo è disposto a
riconoscere a taluni partiti. Tutto ciò premesso, sarebbe sbagliato non
evidenziare che, a seguito delle modifiche introdotte nel ddl, la copertura
finanziaria del protocollo è diventata ancora più incerta e gravosa, specie per
quanto riguarda la delicatissima questione dei lavori usuranti (per i quali è
saltato il tetto delle 5mila unità all’anno che rappresentava un argine contro
il dilagare di una nuova stagione di prepensionamenti).