Watchmen, quando gli Usa di Nixon vinsero la guerra in Vietnam
07 Marzo 2009
Watchmen (Paramount Pictures 2009, 163 min.) è un film girato da Zack Snyder, quello di “Trecento”, e vale la pena guardarlo solo per essere travolti dai suoi effetti speciali.
Non parleremo delle polemiche che hanno circondato la prima: il boicottaggio da parte di Alan Moore, che disapprova ogni rifacimento delle sue “graphic novel” sul grande schermo; la disputa tra chi ha recensito entusiasticamente il film, perché avvicinerebbe il grande pubblico all’universo del fumetto (Watchmen è tra “i cento migliori romanzi inglesi dal 1923 a oggi” secondo la classifica di Time Magazine), e chi lo ritiene un polpettone di due ore e mezza, pieno di depravazione morale e destinato a corrompere le menti delle giovani generazioni. Com’è sconvolta la testa di Moore, un barbuto signore che in gioventù si è fatto di LSD.
Ci interessa, piuttosto, il profilo politico di Watchmen. La storia di Moore è un perfetto esempio di “ucronia”, quel genere letterario basato sull’idea che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello che conosciamo. In Italia basterebbe rileggersi Guido Morselli, nel caso di Watchmen parliamo di un ritratto distopico degli Usa al giro di boa degli anni Ottanta: quando ancora non era chiaro se l’America avrebbe vinto la Guerra Fredda e riviste come Metal Hurlant titolavano “Arrivano i rossi”.
Nel contro-passato prossimo ideato da Moore si aggira un manipolo di supereroi senza superpoteri che hanno perso anche il consenso di cui godevano i loro predecessori (Superman e Co.) e sono stati degradati al ruolo di “Vigilantes”. Quis custodiet ipsos custodes? Chi controlla i controllori? Ecco la domanda chiave che si è posto Moore per demitizzare gli eroi in costume che leggeva da ragazzo, ripudiandoli.
Eppure i suoi “watchmen” offrono un’immagine inaspettata dell’America. Gli Usa hanno vinto la Guerra in Vietnam e annullato il rischio del “primo colpo” sovietico. Il presidente Nixon non è stato travolto dal Watergate, anzi, dopo aver tolto di mezzo Woodward e Bernstein ha modificato il 22esimo emendamento della Costituzione, garantendosi cinque mandati presidenziali e un decennio di potere ininterrotto.
Dobbiamo ringraziare in particolare due Guardiani se la superpotenza americana si è evoluta in questo modo. Il Dottor Manhattan e Rorshash. Il primo prende il nome dal Progetto Manhattan che diede vita alla potenza atomica americana. Nixon spedisce il "Dottore" sul fronte vietnamita nel ’71 e in due mesi ottiene la resa dei Vietcong. Il Vietnam diventa il “51esimo stato” degli Usa. Tanto che a un certo punto uno dei personaggi dice a proposito di Manhattan: “Dio esiste ed è americano”.
Il secondo, Rorsasch, con il volto cosparso dalle celebri macchie, combatte un battaglia assoluta e senza tregua contro il crimine per restituire al suo Paese il senso della differenza tra “Bene” e “Male”, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Lui e il Dottor Manhattan potrebbero essere due simboli del movimento conservatore – tutti coloro che ritengono la sconfitta in Vietnam la pagina più buia della storia americana e il relativismo morale la peggiore eredità della rivoluzione liberal – se non fosse che Moore ha dipinto gli Usa come un inferno totalitario.
Moore è un autore anarcoide che, da un punto di vista letterario, è nel solco delle morbide dittature di William Burroughs e Philip H. Dick. Alla lunga però la sua visione di un’America torva, illiberale e guerrafondaia inizia a dare sui nervi. Ti prende la nostalgia di Superman, delle sane calzamaglia anni Cinquanta, quando i supereroi non avevano tutti questi superproblemi e l’America era un Paesi più forte e più sicuro.
E i tre mandati di Nixon? Be’, tra New Deal e Grande Depressione il presidente Roosvelt ne collezionò quattro, e questa è storia non fantascienza.