Web tax ed economia digitale: tutto quello che c’è da sapere (fino ad ora)
29 Gennaio 2019
Oggi prende il via la rubrica Tax&Tax. Si parlerà di fisco, un tema che riguarda tutti noi e delle cui evoluzioni, non solo giuridiche, ma anche e soprattutto sociali, politiche e culturali, è bene dunque essere informati. Di fisco, del resto, si sente spesso parlare anche a sproposito, sia da un punto di vista tecnico, ma anche sotto il profilo di quelle che sono le reali criticità del nostro Ordinamento, soprattutto nel rapporto con l’evoluzione tecnologica, al cui passo le norme non riescono (e forse non possono) stare dietro. Eppure i tributi (e la loro evasione) non sono certo frutto della società contemporanea. Il popolo versava al Faraone la quinta proventum, un tributo applicato alle terre fertili nella misura della quinta parte (20%) di tutti i guadagni (c’era già la flat tax!). Nell’antica Roma, i tributi erano impiegati per costruire edifici pubblici, infrastrutture (c’era già la Tav!) e il tributum in capita (tributo per testa) gravava in egual modo sui ricchi e sui poveri, con la conseguenza che il malcontento sfociò in evasione fiscale e alle autorità non restò che ripartire i tributi in base alla capacità contributiva dei cittadini. Niente di nuovo sotto il sole quindi. Da millenni. E dalla storia, forse, andrebbe recepito anche un monito: per sfuggire al fisco e ai suoi esattori i Romani, durante l’impero, si rifugiavano addirittura presso i barbari (esisteva già la delocalizzazione!). E alcuni storici sostengono che una delle principali cause della caduta di Roma sia stata proprio la schiacciante pressione fiscale.
Il consiglio dei ministri spagnolo, venerdì scorso, ha dato il via libera alla web tax, che dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 1,2 miliardi di euro. La proposta di legge, nata anche con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, che, nel 2018, ha raggiunto un nuovo record storico, era stata sottoposta anche ad un processo di consultazione pubblica, in modo da sentire l’opinione dei cittadini. E la maggioranza del Paese ha dato riscontro positivo. La web tax, con aliquota al 3%, colpirà le aziende che ogni anno fatturano oltre 750 milioni di euro, di cui almeno 3 milioni in Spagna, e che erogano servizi di pubblicità online, attività di intermediazione e vendita di dati e metadati forniti dagli utenti. Saranno escluse dall’applicazione della norma le vendite di beni e servizi tra privati che avvengono tramite una piattaforma e le vendite dirette. Inoltre, saranno previste delle sanzioni nel caso vengano accertate frodi del sistema, per esempio, quando si tenta di nascondere gli indirizzi IP degli utenti per non permetterne la localizzazione sul territorio. Le sanzioni potranno arrivare anche allo 0,5% di quanto dichiarato dall’azienda come fatturato netto dell’anno precedente.
La strada della tassazione di tali tipi di attività sta comunque per essere intrapresa, singolarmente, da vari Paesi. Con la proposta di Digital service tax inglese (che dovrebbe entrare in vigore nel 2020), per esempio, si mira ad intercettare i proventi derivanti da operazioni tramite piattaforme telematiche e social network, big data, online marketplace etc. La digital service tax inglese sarà specificamente mirata su determinate “digital business activities”, i cui proventi ammontino, globalmente, a più di 500 milioni di sterline all’anno, di cui almeno 25 milioni derivino da transazioni connesse alla partecipazione di un cittadino residente sul territorio britannico e con soglia di esenzione fino ai primi 25 milioni di sterline. Anche la Francia intende infine predisporre una sua web tax, già a partire dal 2019. Il tributo è stata già denominato “GAFA tax” (dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Amazon) e il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha riferito di puntare a far entrare nelle casse dello Stato almeno 500 milioni di euro l’anno. Anche in questo caso saranno i ricavi generati dalla pubblicità, dalle piattaforme e dalla vendita di dati personali. E l’Italia? L’Italia, a dire il vero, era stata la prima a muoversi su tale terreno, approvando già, nel corso della Legge di Bilancio dello scorso anno, una sua web tax, che però è poi rimasta solo sulla carta per mancanza dei decreti attuativi. E ora, con la Legge di Bilancio 2019, ha avanzato una nuova soluzione (da concretizzarsi però con Decreto Mef, da approvarsi entro il 30 aprile 2019).
La nuova web tax italiana si applicherà ai soggetti esercenti attività d’impresa che, singolarmente o a livello di gruppo, nel corso di un anno solare, realizzino congiuntamente un ammontare complessivo di ricavi ovunque realizzati non inferiore a € 750.000.000 e un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali, realizzati nel territorio dello Stato, non inferiore a € 5.500.000. La prima soglia si riferisce quindi all’ammontare complessivo dei ricavi ottenuti dal soggetto in tutto il mondo, mentre la seconda soglia concerne i ricavi realizzati nel territorio dello Stato. La nuova imposta prevede un’aliquota al 3%. La nuova web tax, di cui alla Legge di Bilancio 2019 prende dunque spunto dalla proposta di Digital service tax inglese e comunitaria, cercando di valorizzare anche lo sfruttamento dei big data.
Certo sarebbe stato magari opportuno differenziare il carico dell’imposta sulle aziende in perdita o con un margine operativo ridotto, almeno con funzione di clausola eccezionale, come appunto fatto nel sistema inglese, pena il rischio che la tassazione diventi sproporzionata rispetto alla capacità di pagamento o che abbia altri impatti negativi sulla sostenibilità aziendale. Con la nuova web tax italiana, come detto, assumono comunque un ruolo fondamentale i big data (le preferenze dei consumatori, etc.), che, oggi, vengono spesso carpiti gratis dal mercato italiano, rivendendoli poi in sede pubblicitaria. Bisognerà attendere i decreti attuativi per rilevare, in ogni caso, gli esatti contorni della disposizione.