Week-end di paura a Gaza. Militanti di Fatah fuggono in Israele

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Week-end di paura a Gaza. Militanti di Fatah fuggono in Israele

04 Agosto 2008

Dopo i primi disordini della scorsa settimana, la Striscia di Gaza è tornata nel caos. Tutto nasce il 25 luglio dall’esplosione di tre bombe, che causano la morte di alcuni militanti di Hamas e di una bambina: il gruppo estremista palestinese – che dalla scorsa estate ha preso il controllo della Striscia – punta il dito contro i sostenitori di Abu Mazen presenti sul "suo" territorio. I disordini aumentano, per culminare nel drammatico week-end appena trascorso: sabato tre poliziotti di Hamas e sei militanti di Fatah sono rimasti uccisi negli scontri tra le due principali fazioni palestinesi. I bilanci degli scontri – esplosi dopo che Hamas ha arrestato 11 sospetti sostenitori di Fatah in un quartiere di Gaza – registrano anche oltre 90 feriti, inclusi 16 bambini.

I sostenitori di Fatah nella Striscia – memori della sanguinosa guerra civile scatenatasi la scorsa estate – tentano allora la fuga in Israele. In 188 ottengono rifugio nello Stato ebraico, ma 32 vengono poi rimandati nella Striscia e nella braccia della polizia di Hamas. A decretarne il rimpatrio, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa israeliano Barak, è stato Abu Mazen in persona: i rifugiati appartenevano al clan di Helles, criticato da Fatah per non essere stato in grado di opporsi alla presa della Striscia da parte di Hamas nel giugno 2007. Abu Mazen è stato inflessibile: secondo il presidente dell’Anp, è importante che Fatah mantenga una tangibile presenza a Gaza per non lasciare il territorio nelle mani delle fazioni più oltranziste. Ma il problema dei rifugiati resta: rimandarli nella Striscia significa lasciarli in mano al braccio armato di Hamas, con tanto di arresti e possibili violenze ai loro danni. E dopo i trenta ricondotti a Gaza, si pone ora la questione dei feriti: Barak ha comunicato che resteranno in Israele per le prime cure, poi bisognerà trasferire anche loro. Hussein Al-Shaikh, leader di Fatah, ha dichiarato che il suo partito sta "discutendo con gli israeliani in che modo permettere ai rifugiati di tornare a Gaza".

Tutto sta nel comportamento che sarà tenuto da Hamas. Abu Zuhri, portavoce del partito islamista di stanza nella Striscia, ha fatto sapere che "coloro che sono connessi all’esplosione delle bombe verranno interrogati e consegnati alla giustizia, gli altri saranno immediatamente rilasciati". Non sono chiari, però, i criteri seguiti da Hamas per l’individuazione dei presunti colpevoli: senza dimenticare che Fatah continua a dichiararsi assolutamente estraneo alle esplosioni che hanno originato questa nuova ondata di violenze. Atef Helles – uno dei feriti temporaneamente rifugiati in Israele – ha raccontato alla Reuters le violenze subite: "Hamas ha rapinato le nostre famiglie, bruciato le nostre case e terrorizzato i nostri bambini. È per questo che siano scappati da Gaza". Se questi sono i metodi seguiti dal partito islamista – che, sempre secondo Helles, "hanno attaccato la nostra zona lanciandoci razzi e granate" – si può comprendere la delicatezza del problema dei rifugiati.

Ad oggi la soluzione migliore per Israele sembra quella di rimandare i rifugiati nel West Bank, evitando così gli arresti di Hamas e passando la palla nel campo di Abu Mazen. Nei prossimi giorni i feriti saranno dunque trasferiti a Jericho: per parte di loro, però, sono previsti altri giorni di degenza all’ospedale israeliano di Barzilai, nei pressi del confine con la Striscia di Gaza.

Ma i contatti tra Israele e Hamas – impegnati in una tregua a tempo – per ora non vengono intaccati dagli scontri con Fatah: lo Stato ebraico e i palestinesi di Gaza continuano a trattare per il rilascio di Gilad Shalit, il soldato israeliano detenuto dalla fazione estremista palestinese. I media israeliani danno oggi grande risalto alle dichiarazioni di Gabi Ashkenazi, capo dell’esercito israeliano: "Stiamo facendo ogni sforzo ad ogni livello per giungere alla liberazione di Shalit. Sappiamo che è vivo e sappiamo dove è detenuto". Dichiarazioni che hanno riacceso la speranza per una rapida risoluzione del rapimento, sempre che gli scontri tra Hamas e Fatah non mettano a rischio la fragile tregua con i militanti della Striscia: la calma al confine con Gaza, infatti, è ritenuta un elemento essenziale per il buon esito delle trattative.

In questo campo, il governo israeliano si sta muovendo con decisione. Dopo la riunione dei ministri di ieri, è stato istituito un nuovo gruppo di esperti per discutere del rilascio di prigionieri legati ad Hamas in cambio del soldato israeliano: una partita complessa, che vede Israele fortemente indebolito dalle recenti concessioni ad Hezbollah per ottenere i corpi dei due militari caduti nella seconda guerra del Libano. Il nuovo gruppo di esperti – guidato dal vicepremier Ramon – dovrà riprendere in mano le redini dei negoziati: ad oggi è stato raggiunto un accordo solo su 70 dei 380 nomi forniti da Hamas. A conferma delle trattative in corso, però, secondo un funzionario di Hamas Israele avrebbe liberato durante la notte un ex ministro della fazione islamista: si tratterebbe di Omar Abdel Razek, ministro delle Finanze al momento del suo arresto nel giugno 2007.

Quel che è certo è che anche la partita per Shalit passa attraverso i burrascosi rapporti tra Hamas e Fatah. Nel caso di un aggravarsi della situazione, Israele non potrebbe che schierarsi dalla parte di Abu Mazen: una posizione che potrebbe portare Hamas a rompere la tregua con lo Stato ebraico e a mettere la parola fine alle trattative per Shalit. Senza contare poi che i negoziati con Hamas – nel caso in cui il leader che uscirà dalle primarie di Kadima non riuscisse a mettere in piedi un nuovo governo – potrebbero essere messi in discussione dalle elezioni in Israele: una vittoria del Likud, infatti, vedrebbe la nascita di un governo molto meno propenso al rilascio di terroristi palestinesi. Per questi motivi il premier israeliano Olmert cerca di stringere i tempi, con l’intento di portare a casa Shalit prima di lasciare l’incarico e di dedicarsi alle accuse di corruzione che pendono sulla sua testa.