Wikileaks pretende verità e trasparenza per tutti tranne che per sé
01 Dicembre 2010
Logs che fioccano, così come le possibili conseguenze giudiziarie dell’imboscato Julian Assange. Dopo gli Iraqlogs, i Warlogs, e i Cablelogs, oramai disponibili e consultabili , la ”caccia all’uomo” al fondatore di Wikileaks Julian Assange, è cominciata. Il cerchio si stringe. Il segretario di Stato, Hillary Clinton minaccia un po’ di giustizia punitiva e il ministro della giustizia USA Eric H. Holder jr., conferma che un’indagine da parte del Dipartimento della Giustizia e del Pentagono è in corso per determinare se vi siano gli estremi per un incriminazione di Assange.
E’ abbastanza certo che il ‘bastone’ dell’azione legale intrapresa dal Dipartimento di Stato non darà buoni frutti, soprattutto perché è quasi certo che in un’aula di tribunale la violazione dell’Espionage Act, la legge che criminalizza la divulgazione di documenti confidenziali o segreti, potrebbe entrare in conflitto con il Primo Emendamento della Costituzione statunitense, quello che tutela la libertà espressione. Ed è abbastanza scontato che in giro per l’Europa qualche paese possa considerare la divulgazione di Assange come un "reato politico", tale da non permettere l’estradizione. Ma in attesa che Wikileaks sia condotta in tribunale, è giunto il momento di incominciare a porre delle domande ai paladini della trasparenza.
Chi paga Wikileaks, il ‘gruppo’ che vanta di essere l’Intelligence Agency of People? Chi paga Julian Assange? E il piccolo o grande (non v’è certezza di quanti siano gli stipendiati nella ‘redazione’ di Wikileaks) numero di dipendenti del media trafugatore chi sono? Dove sono? Quanto sono pagati e da chi? Non meritiamo noi comuni mortali di sapere chi c’è dietro a Wikileaks? Ecco l’evidente contraddizione in cui cadono Assange&co: la trasparenza che esigono e che forzano sull’opinione pubblica da mesi su governi e corporazioni, non si traduce in un aumento della trasparenza della propria organizzazione, dei propri fondi, del proprio personale e delle proprie fonti. E le scuse accampate da Wikileaks sulla necessità di riserbo per tutelare “un’organizzazione sempre sull’orlo di un’azione legale o di tentativi di infiltrazione o spionaggio”, non ci pare tenga molto.
In una inchiesta del Wall Street Journal dello scorso Agosto, molto poco si è capito dei movimenti di Wikileaks. Si sa che l’organizzazione paga gli stipendi a non più di cinque dipendenti (il Guardian parla di qualche unità in più, una ventina). Sappiamo, per bocca di Assange, che dall’inizio del 2010 il ‘gruppo’ Wikileaks ha ricevuto un milione di dollari in donazioni. Sappiamo che Wikileaks ha nella fondazione tedesca Wau Holland il suo principale collettore finanziario. Con sede a Berlino, la fondazione raccoglie il denaro in un conto della Commerzbank di Basilea (oltre a quello presente in Islanda e alla casella postale di Victoria in Australia).
Ma perché la Germania? Ecco la gabola. In linea con la regolamentazione federale tedesca la quale protegge il nome dei donatori per certe fondazioni, il denaro resta al sicuro e la possibilità di azione legale è praticamente annullata. Inoltre sappiamo che, sempre per ammissione di Wikileaks, che il ‘gruppo’ ha uno status giuridico di " biblioteca in Australia, di fondazione in Francia e di testata giornalistica in Svezia”. Inoltre Wikileaks può contare su due organizzazione caritative negli Stati Uniti, le c.d. 501C3, che agiscono come “facciata” nella raccolta fondi Wikileaks oltre ad usufruire di agevolazioni fiscali. Se fossimo stati nel WSJ, avremmo cercato di scoprire il nome della ”biblioteca” australiana, il nome delle 501C3 e il nome della fondazione a cui fa capo Wikileaks in Francia. Noi non ci siamo riusciti, ma forse il WSJ avrebbe avuto diversa fortuna (se solo avesse tentato?).
Un dipendente di Wikileaks, nome in codice “Mr. Schmitt” secondo il WSJ e Wired, ha dichiarato che Wikileaks ha un fabbisogno annuo di 200 mila euro per pagare i suoi stipendi ma si prevede che in futuro vi possa essere un fabbisogno di almeno 600 mila euro. Tanti soldi. Ma molti meno di quanto, con buona probabilità, non ne ruotino attorno al ‘gruppo’ di Assange. E’ comunque tempo di regolare i conti. Perché se donne e uomini politici possono essere ridicolizzati dagli USA con la complicità della pubblicazione di Wikileaks, il quale soffia sul fuoco; Se quelli di Wikileaks si possono permettere di mandare al macero anni di azioni di anti-terrorismo, come testimoniano i danni derivanti dalla divulgazione della dialogo tra Petreaus e il presidente yemenita Saleh; Se “quelli” di Wikileaks si concedono il lusso di raccontarci, col loro commercializzazione anglofona da quattro soldi che suona:“We open governments” – Noi apriamo i governi, forse è tempo di lanciare un “We open Wikileaks” – noi apriamo Wikileaks. "Hacker di tutto il mondo unitevi!" e dateci il contenuto delle email di Assange.