
Willy Brandt, figlio di una “Patria difficile”

07 Dicembre 2020
Nell’immediato secondo dopo-guerra la politica estera della Repubblica Federale Tedesca fu ispirata da due principali dottrine: l’Alleinvertretungsanspruch (codificata dal cancelliere Konrad Adenauer), secondo cui solo la Repubblica di Bonn poteva parlare a nome dei tedeschi, poiché la Ddr non era altro che una zona d’occupazione sovietica e come tale, non poteva essere riconosciuta come Stato sovrano; e la “dottrina Hallstein” (dal nome del giurista Walter Hallstein, sottosegretario agli Esteri dal 1951 al 1958 e fatta propria anche dal Cancelliere democratico-cristiano) che prevedeva che ogni apertura di Paesi terzi verso la Repubblica democratica tedesca avrebbe comportato automaticamente la rottura dei rapporti diplomatici (come avvenne con Cuba e con la Jugoslavia di Tito).
Nel 1969 Willy Brandt riuscì a portare il Partito socialdemocratico al governo, segnando una netta discontinuità programmatica, passata alla storia come Ostpolitik: «il nostro interesse nazionale non ci consente di stare in mezzo fra Est e Ovest. Il nostro Paese ha bisogno della collaborazione con l’Occidente e dell’intesa con l’Oriente»; una distensione, una collaborazione per raggiungere alcuni specifici obiettivi. Un approccio politico che, con le categorie attuali, potremmo definire per certi versi (e paradossalmente) “sovranista”, e dunque simile a quella di Charles De Gaulle (e forse da questa stessa influenzata). Questo percorso, tuttavia, non mise mai apertamente in discussione l’inserimento della Repubblica federale nel sistema occidentale, né la partecipazione alla Nato e alla costruzione della Casa comune europea (iniziata – d’intesa con la Francia – con la creazione della Ceca, e accelerata dalla stipula degli Accordi di Roma del ’57).
La strategia così delineata è varata con due gesti clamorosi: Willy Brandt che – in Polonia – si inginocchia davanti al monumento consacrato alle vittime del Nazismo; seguito dall’accettazione dell’invito a Berlino da parte dell’allora primo ministro della Ddr, Willy Stoph (incontro che diede il via a una serie di “vertici inter-tedeschi” la cui contropartita fu la progressiva legittimazione del regime comunista).
Il primo evento è passato alla storia come la Warschauer Kniefall (la Genuflessione di Varsavia).
50 anni fa Brandt cambiò per sempre l’immagine della Germania nel mondo.
Si inginocchiò a Varsavia, improvvisamente, spontaneamente, davanti al monumento che ricordava i morti della repressione nazista. Era la prima visita di un cancelliere tedesco in Polonia: Brandt avrebbe dovuto firmare il trattato con cui la Germania finalmente riconosceva la frontiera lungo la linea Oder-Neisse, ma per il mondo intero, il motivo ufficiale del viaggio del cancelliere della Ostpolitik – dopo quel gesto – si dissolve nell’oblio: il laico, socialdemocratico che aveva trascorso gli anni della guerra in Norvegia, nella Resistenza e che si inginocchia – come in preghiera – dinanzi al monumento che ricordava uno dei più feroci eccidi commessi dal regime di Hitler.
In realtà, nei sondaggi dell’epoca, un tedesco su due è in disaccordo con quel gesto, ritenendolo “esagerato”. Il Paese non è ancora pronto per un Cancelliere che, l’anno successivo – non a caso – sarebbe stato insignito con il Nobel per la Pace. Furono 30 secondi appena con cui Brandt onorò la resistenza polacca, restituendo dignità ai tedeschi. Lui in seguito li avrebbe così ricordati: «Affacciato sull’abisso della storia tedesca e sotto il peso di milioni di morti, feci ciò che fanno gli esseri umani quando la parola fallisce».
Per quanto riguarda la seconda dimensione, la piattaforma negoziale con l’Urss prese forma dalla rinuncia sovietica al “diritto dell’intervento”, costantemente rivendicato da Mosca, in cambio del riconoscimento – a Est del Muro – dello status quo venutosi a formare come conseguenza della guerra, e all’adesione della Germania al “Trattato di non proliferazione”.
Ciò portò al riconoscimento dell’esistenza delle due Germanie, alla stipula di un trattato bilaterale con Varsavia (con la definitiva accettazione appunto – da parte di Berlino – dei confini occidentali della Polonia) e infine all’accordo tedesco-sovietico del 1970, firmato a Mosca da Brandt e Kossyghin.
In quella occasione Brandt mostrò un certo senso strategico, affermando che: «La Russia è indissolubilmente legata alla storia europea, non solo come avversario o come pericolo, ma come partner, storicamente, politicamente, culturalmente ed economicamente».
Quindi, dopo la dottrina Adenauer-Hallstein, prevalse quella Brandt: «promuovere il cambiamento attraverso l’avvicinamento».
In questo rinnovato clima di collaborazione – con l’obiettivo di costituire un pacifico ordine europeo – venne convocato il congresso di Helsinki (1973-75).
Gli accordi stipulati a Mosca (1970) e a Helsinki (1975) portarono la Repubblica federale tedesca a rinunciare all’“Alleinvertretung” e, conseguentemente, all’intento politico della riunificazione.
La dirigenza sovietica dichiarò, per il tramite di Leonid Brezhnev, la propria approvazione per la nuova politica estera condotta dalla Rft (provocando di fatto più di un malumore a Berlino Est), e fece corrispondere alla Ostpolitik di Brandt una propria Westpolitik; ma le due agende non erano perfettamente coincidenti, come non lo erano le traiettorie strategiche dei rispettivi protagonisti.
Per la Rft, l’Ostpolitik puntava a distendere le relazioni tra i due blocchi, in modo da riequilibrare conseguentemente anche la situazione tedesca; per i sovietici, la propria Westpolitik avrebbe dovuto indebolire geopoliticamente il blocco antisovietico, creando un divario tra la Germania (il cui peso politico cresceva di pari passo con quello economico) e il resto dell’Occidente.
Prese così forma una politica impastata di idealismo e realismo, a cui – proprio questa continua oscillazione – impedì di cogliere risultati davvero significativi; l’impegno in tal senso del Cancelliere fu comunque riconosciuto – come già ricordato – con l’assegnazione del Nobel.
Brandt permise alla Germania di ritagliarsi un proprio spazio di manovra, restituendole un minimo peso geopolitico, e a conti fatti l’Ostpolitik fu – dall’Operazione Barbarossa – il momento di massima distensione tra la Germania e l’Urss; ma tutto ciò fu pagato con l’accettazione, forse inevitabile, dello status quo e con la rinuncia – almeno momentanea – al sogno della riunificazione e alla sovranità della Rft sull’intera Germania; il tutto però condito da scelte particolarmente infelici, come il rifiuto di Bonn di aderire alle sanzioni proposte dagli Usa contro la Polonia a seguito della repressione dei movimenti per i diritti umani.
Quella del Cancelliere socialdemocratico, che arrivò a definire la Germania una «Patria difficile», è una figura complessa, ammantata di toni enfatici ma contraddittoria; per esempio, è convinzione diffusa che Brandt, all’epoca sindaco di Berlino, avesse animato la resistenza dei suoi concittadini contro i comunisti che erigevano il Muro della vergona: accadde in realtà il contrario.
I berlinesi erano indignati con il regime di Pankow, con le truppe di occupazione sovietiche e persino con gli “alleati” rimasti a guardare, ma Brandt non li guidò, li dissuase: era convinto che il Muro sarebbe esistito per sempre, così come le due Germanie.
Ed è in questo spirito di rassegnazione che bisogna scorgere il peccato originario della sua visione, a cui agganciò la sua intera strategia – in politica interna e ancor più in quella estera – che alla luce dei fatti si sarebbe dimostrata clamorosamente errata.
La sua Ostpolitick non partiva da una volontà di riscossa, quanto di adattamento.
Il segno che ha impresso alla storia contemporanea del suo Paese resta però profondo, tale da dilatare la percezione stessa della sua permanenza nella Cancelleria: Brandt restò infatti alla guida della Rft solo per 5 anni, a fronte degli otto di Schmidt, dei dieci di Kohl e dei tredici di Adenauer.