Xi Jinping, chi è il leader designato alla guida della Cina
12 Novembre 2010
Vanta un curriculum eccellente per chi ha improntato la propria carriera politica verso i vertici del potere, in un sistema chiuso, esclusivo e quasi familistico qual è il Partito Comunista Cinese. Già vicepresidente della Repubblica, capo della Segreteria del Partito, presidente della Scuola centrale del partito, membro del Comitato permanente dell’ufficio politico, Xi Jinping è, dallo scorso ottobre, vicepresidente della Commissione Centrale per gli Affari Miliari, incarico che per molti rappresenta l’anticamera prima alla poltrona di segretario generale del partito e poi alla carica suprema di capo di Stato.
Xi, che ha 57 anni, è entrato nel 2007 nel comitato centrale del Politburo, il cuore del potere cinese, e l’anno successivo ne è diventato vice presidente. Sette degli attuali nove membri del comitato permanente dovranno dimettersi nel 2012 perché avranno concluso due mandati: rimarranno solo Xi Jinping e Li Kequiang, considerati i leader di domani. Figlio di Xi Zhongxun, uno dei padri fondatori del partito comunista cinese, Xi è noto come un sostenitore dell’economia di mercato e fustigatore della corruzione fra gli alti funzionari, e si è fatto le ossa nelle province difficili dell’impero: il “povero” Hebei e il “corrotto” Fujan.
La sua investitura a numero due del potentissimo organo del partito (che controlla anche le Forze armate) è arrivata nell’ultima giornata del quinto plenum del diciassettesimo comitato centrale del PCC e non è affatto una sorpresa. Tre anni fa, dopo un lungo e serrato dibattito interno, il diciassettesimo congresso del partito scelse Xi come uomo di punta della quinta generazione di comunisti cinesi. Questa nomina, dunque, rappresenta una sorta di passaggio obbligato nel complesso “cursus honorum” della nomenclatura pechinese. Stessa sorte toccò a Hu Jintao, quarto ed attuale Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, nonché presidente della Repubblica Popolare Cinese e della Commissione Militare Centrale dello stato e del partito.
Sembra, insomma, di rileggere anche questavolta il medesimo copione. Del resto, i cinesi sono abituati ad adottare un “cambio di guardia politico” che consente al predecessore di rilasciare gradualmente il potere affinché il passaggio del “testimone” non sia troppo repentino e carico di cambiamenti che potrebbero far vacillare l’andamento regolare delle fila dirigenziali del PCC. La Cina non ha poi sostanziali regole scritte che disciplinano i trasferimenti di poteri e questo sistema consente anche alle nuove generazioni di dirigenti di portare i giovani nella stanza dei bottoni in maniera più graduale e fluida. Ma quella cinese non è una politica immobile, anzi la storia degli ultimi decenni racconta di una politica che ha saputo modificare la direzione di marcia del proprio paese e adeguarla ai tempi, mostrando abilità di manovra ed emancipazione dalla tentazione conservatrice, che è propria delle dittature.
Nel descrivere Xi Jinping, l’Economist mette l’opinione pubblica in guardia sul fatto che non si sa chi sia davvero il prossimo presidente cinese; e perché il regime cinese è meno solido e monolitico di quello che spesso si pensa. La Cina dovrà realizzare nei prossimi cinque anni, a detta del comitato centrale del PCC, un’importante svolta nella propria politica economica; la crescita dovrà essere “inclusiva” e puntare a ridurre le differenze di reddito tra la ricca élite urbana e centinaia di milioni di lavoratori e contadini.
Altra questione misteriosa, scrive il settimanale britannico, è la strada compiuta da Xi, poco noto in patria, praticamente sconosciuto all’estero, per imporsi come futuro leader – in questo la nomina, portata avanti con estrema riservatezza, è stata curiosamente simile a quella di Kim Jong Un, in Corea del Nord.
L’Economist, d’altro canto, pur ribadendo il fatto che Xi dovrà superare indenne questi due anni di transizione, senza permettere ad altri di minare il suo profilo e compromettere la sua nomina, riconosce che il probabile futuro leader – definito “cosmopolita” – ha delle buone carte da giocare, non fosse altro per la serie di importanti e proficui incarichi che ha ricoperto nelle zone più sviluppate e dinamiche del paese che fanno di lui un “giocatore” navigato e promettente.
Le perplessità, sollevate dall’autorevole giornale britannico, restano, in ogni caso, vive. Il piano quinquennale approvato dal congresso prevede un tasso di crescita sostenibile e una più equa distribuzione delle risorse ai lavoratori. Questa sarebbe un’ottima notizia sia per la Cina che per il resto del mondo, scrive l’Economist, perché aiuterebbe a colmare quel distacco tra importazioni ed esportazioni che innervosisce i paesi stranieri e soprattutto gli Stati Uniti. Ma sarà un cambiamento doloroso. Gli esportatori avranno paura per le loro imprese, se gli stipendi dovessero aumentare. Le grosse aziende di stato sono abituate a ottenere credito, terra ed energia con gran facilità e minimi sforzi economici: dovranno rinunciare a molti privilegi.
Altro tasto, non meno delicato, è l’attesa riforma politica, che non ha semplicemente a che fare con la democrazia e i diritti umani, ma che è fortemente legata alla crescita economica del paese. Quest’ultima e la diffusione di internet hanno dato ai cinesi la possibilità di comunicare e di elaborare desideri e sogni con un livello di libertà del tutto inedito, finché questi non minacciano la stabilità del regime. Ma prima o poi la voce di chi chiede di poter discutere la governance del paese diventerà grossa abbastanza da non poter essere ignorata o messa a tacere.
Da qui, quindi, l’Economist avanza consigli a Xi Jinping: allentare la morsa del partito sui dissidenti, rompere il muro della segretezza e portare a termine alcune fondamentali riforme economiche. Staremo a vedere se il futuro Grande Timoniere della Cina coglierà i suggerimenti.