Zardari è il nuovo ‘uomo forte’ degli Usa in Pakistan

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Zardari è il nuovo ‘uomo forte’ degli Usa in Pakistan

09 Settembre 2008

Ieri è stato il grande giorno di Asif Ali Zardari, che ha prestato giuramento come nuovo presidente del Pakistan. Il leader del Pakistan People’s Party (Ppp, il partito di maggioranza relativa nell’attuale coalizione al potere a Islamabad) è stato eletto dal Parlamento e dalle quattro assemblee provinciali del Paese alla massima carica dello Stato. Il vedovo dell’ex premier Benazir Bhutto ha sbaragliato la concorrenza di due altri candidati: Saeeduzzaman Siddiqui (Pakistan’s Muslim League-Nawaz, Pml-N) e Mushahid Hussain Syed (Pakistan’s Muslim League-Quaid-e-Azam). Zardari succede a Pervez Musharraf, l’ex uomo forte di Islamabad, dimessosi dalla carica il 18 agosto scorso per evitare l’impeachment, in un momento di grande caos in Pakistan, teatro di incessanti attentati da parte dell’insorgenza islamista  (l’ultimo sabato a Peshawar con 35 morti) e sfiancato da una profonda crisi economica.

In quanto fronte primario della guerra al terrore, le cancellerie occidentali (e quella indiana) si domandano se ora il Pakistan di Zardari avrà la forza e, soprattutto, la volontà di combattere efficacemente i talebani e al-Qaeda, oppure se il nuovo presidente replicherà le ambiguità del suo predecessore. Musharraf sulla carta doveva essere il più importante alleato dell’amministrazione Bush nella lotta al terrorismo islamista, ma nella sostanza si è rivelato un infido equilibrista, che alternava azioni repressive contro i miliziani fondamentalisti lungo il confine con l’Afghanistan ad accordi sottobanco con gli stessi per blandire l’establishment militare locale, legato a doppio filo alla galassia islamista. Senza dimenticare, poi, che l’ex presidente ha dovuto fare i conti con i mal di pancia di ampie fette della popolazione pakistana, che non amano gli Stati Uniti e vivono le pressioni americane come una inaccettabile ingerenza negli affari interni del Paese.

Zardari non avrebbe potuto coronare la sua rapida scalata politica senza l’appoggio degli Usa (e della Gran Bretagna), che lo hanno considerato l’unica reale alternativa a un Musharraf sempre più inaffidabile e politicamente ormai indifendibile. Washington era anche ben preoccupata di prevenire un ritorno al potere dell’ex premier Nawaz Sharif (leader del Pml-N), fino a poche settimane fa alleato del Ppp di Zardari, visto da sempre come troppo tiepido nei confronti della guerra ad al-Qaeda e ai talebani.

I buoni rapporti intessuti dalla Bhutto a Washington prima del suo assassinio, in particolare con Zalmay Khalilzad (attuale rappresentante Usa alle Nazioni Unite e dal 2003 al 2005 ambasciatore a Kabul), hanno avuto il loro peso nelle fortune politiche di Zardari. Secondo fonti di Asia Times, un ruolo centrale nella vicenda è stato ricoperto dall’attuale ambasciatore pakistano negli Usa, Husain Haqqani. Ben introdotto negli ambienti neocon, sarebbe stato proprio il professor Haqqani la chiave per convincere George W. Bush ad abbandonare Musharraf e a puntare su Zardari, come ci sarebbe il suo zampino nella ventilata candidatura dello stesso Khalilzad (che è afghano di nascita) alla presidenza dell’Afghanistan.

Da buon businessman, Zardari sembra voler dare agli Usa quello che vogliono. Negli ultimi tempi ha assunto una posizione ufficiale di fermezza contro il radicalismo islamista, ma non si è limitato alle semplici dichiarazioni di principio. Il rigetto di alcuni accordi di pace siglati nei mesi scorsi dal governo pakistano con gruppi talebani nelle aree tribali del Paese (Fata) e nella North-West Frontier Province (Nwfp), ha portato nel mese di agosto a un incremento delle operazioni militari in queste zone al confine con l’Afghanistan. Tehrik-i-Taliban, l’organizzazione ombrello dei talebani pakistani, è stata inoltre messa al bando di recente.

Il salto di qualità si è avuto però mercoledì scorso, quando squadre speciali americane hanno lanciato un attacco nel villaggio pakistano di Angoor Adda, nel Sud Waziristan. L’incursione – ufficialmente la prima di militari americani in territorio pakistano dal 2001 – aveva come obiettivo esponenti di spicco di al-Qaeda e dei talebani, di cui in realtà non è stata riscontrata alcuna traccia. In compenso, le cronache locali parlano di una ventina di civili morti nel conflitto a fuoco, una carneficina che ha fatto scattare le vivaci proteste delle autorità di Islamabad e della popolazione locale.

Un altro raid sarebbe stato compiuto il giorno seguente nel Nord Waziristan, senza risultati apprezzabili, però, se non l’uccisione di quattro miliziani di secondo piano. Sempre in questa area tribale, nei pressi di Miram Shah, velivoli drone americani hanno bombardato lunedì un presunto rifugio di Jalaluddin Haqqani, accusato dalla Cia di essere l’ufficiale di collegamento tra l’Inter-Services Intelligence (Isi, i servizi segreti pakistani) e Osama bin Laden. L’azione ha provocato 16 morti, mentre fonti sul posto confermano che il comandante talebano non era sul posto al momento dell’attacco.

I termini della nuova cooperazione antiterrorismo tra Washington e Islamabad sarebbero stati discussi due settimane fa sulla portaerei Usa Abraham Lincoln, in navigazione nell’Oceano Indiano. All’incontro avrebbero partecipato i rispettivi capi di stato maggiore delle Forze armate, l’ammiraglio americano Michael Mullen e il generale pakistano Ashfaq Pervez Kiani. Mullen ha fatto pressioni perché sia permesso alle forze Usa di stanza in Afghanistan di intensificare gli attacchi transfrontalieri, i quali non dovranno limitarsi al semplice ‘diritto di inseguimento’ dei miliziani in fuga verso il Pakistan dal territorio afghano (come stabilito da una intesa precedente del 2007).

A dire il vero, al Pentagono non tutti sono convinti della effettiva bontà delle ‘cross-border operation’. Alcuni suoi settori ritengono inevitabile assumere una posizione più aggressiva in questo frangente, mentre altri credono che questa strategia, oltre a non portare risultati concreti sul campo, comporti costi politici enormi per un esecutivo pakistano di per sé già molto debole. In questo senso, sarebbe più opportuno costringere l’Esercito pakistano – che ha sospeso le operazioni in corso per il Ramadan – a ingaggiare direttamente i miliziani fondamentalisti. In ogni modo, la frequenza degli eventuali raid in territorio pakistano non può prescindere da una attenta valutazione del quadro politico domestico pakistano.

Un punto è fuori discussione: non c’è strategia antiterrorismo che tenga se Zardari non riuscirà a estendere il proprio controllo sulle Forze armate e sull’Isi, le due variabili indipendenti della guerra ad al-Qaeda e soci in Pakistan e Afghanistan. A oggi, però, i suoi sforzi in tal senso hanno raccolto magri risultati. A fine luglio i militari hanno disinnescato il tentativo del governo pakistano di portare i servizi segreti sotto il controllo del ministero dell’Interno (nei desideri anche di Washington). Voci di corridoio a Islamabad parlano di un Zardari ansioso di silurare l’attuale direttore generale dell’Isi, il generale Taj Nadeem. In quanto commander-in-chief e capo del Consiglio nazionale di sicurezza, il presidente pakistano dovrebbe avere pieni poteri in materia nucleare. Nei fatti, però, il controllo dell’arsenale atomico pakistano è nelle mani del numero uno delle forze armate, e quindi di Kiani: un vulnus per la larvale democrazia pakistana.

Le reazioni contrastanti dei diversi membri dell’esecutivo agli ultimi eventi è un chiaro sintomo che a Islamabad oggi regna la più assoluta confusione. Shah Mahmood Qureshi, ministro degli Esteri pakistano, ha pesantemente attaccato gli Usa per l’attacco di mercoledì, definendolo una violazione della sovranità nazionale pakistana. In risposta all’iniziativa americana, il governo del premier Yusuf Raza Gilani aveva decretato sabato la sospensione a tempo indeterminato del passaggio dei rifornimenti Nato attraverso il Paese e diretti al valico di Khyber, al confine tra l’omonima aerea tribale pakistana e la provincia afghana di Nangarhar.

Il transito è ripreso lunedì, dopo che il ministro dell’Interno aveva sottolineato – in contrasto con quanto affermato dal suo collega della Difesa, Ahmed Mukhtar – il carattere temporaneo della misura e il fatto che la sua adozione non avrebbe avuto alcun collegamento con quanto accaduto ad Angoor Adda, ma con problemi di sicurezza nelle zone di passaggio dei convogli. L’interruzione dei rifornimenti via terra da sud sarebbe disastrosa per le forze Nato e Isaf in Afghanistan, alle prese già con i sabotaggi orchestrati dai miliziani talebani nel porto di Karachi e con le minacce della Russia di chiudere i corridoi aerei finora concessi a nord. 

Alla fine, il rischio che corre Zardari è quello di trovarsi nella stessa posizione di Musharraf, incalzato da una parte da Washington per combattere i militanti islamisti e dall’altra dalla maggioranza dei pakistani, che propendono per una soluzione negoziata della crisi, in modo da evitare il protrarsi del bagno di sangue in corso, e che vorrebbero vedere il proprio governo maggiormente impegnato a migliorare la disastrosa situazione economica del Paese (inflazione quasi al 25%, ndr). Non giocano poi a favore del neopresidente le occulte trame dei militari e dell’Isi, che si preoccupano di far sfogare l’ondata islamista nei Paesi vicini (India e Afghanistan) con l’obiettivo di destabilizzarli e allo stesso tempo scongiurare i rischi di una guerra civile pakistana.

Proprio il quadro geopolitico attuale dell’Asia Meridionale è ciò che più inquieta gli Stati Uniti. La situazione nel Kashmir indiano è ritornata piuttosto bollente e gli incidenti lungo il confine indo-pakistano sono cresciuti negli ultimi tempi. A Delhi sono preoccupati per il cambio di guardia a Islamabad. Gli indiani hanno il timore di dover negoziare con un leader senza poteri effettivi, problema che non si poneva invece con Musharraf. Una stilettata è arrivata anche da Barack Obama, che ha accusato i pakistani di utilizzare gli aiuti americani per preparare una guerra contro l’India stessa.