1, 100, 1000 giornalisti! La libertà di stampa dalla scuola alla piazza
07 Ottobre 2009
Ha ragione Renato Farina, come ha ragione Piero Sansonetti. E’ bene sottolinearlo per non dare l’impressione di attingere sempre dalle penne che più garbano, o solo rosse o solo nere. Troppo comodo. Allora diciamo che hanno ragione “Betulla” e il direttore de L’Altro, giornalisti (anche se al primo l’ordine dei pennivendoli ha bruciato tessera e dignità) e tipi umani agli antipodi.
Farina ha ragione quando, sul Giornale di sabato 3 ottobre, ricorda una cosa semplice sulle palestre dei nuovi giornalisti: le scuole di giornalismo impartiscono solo il verbo progressista, a varie tinte e gradazioni. Così la linea editoriale dell’ottanta percento delle gazzette italiane sarà assicurata da qui alla fine dei tempi. E’ un dato di fatto: nelle fabbriche di futuri disoccupati, al meglio precari a vita (questione di numeri, il sito dell’ordine conta 16 scuole in Italia, con a carico biennale trenta-quaranta aspiranti l’una), dagli insegnanti ai tutor, dagli ospiti celebri agli uscieri, i "fascisti" si trovano con la lanterna. Proporzione vissuta in via diretta: in quel di Milano al meglio si era in sette contro trentatre. Sarà che è meglio tenersi alla larga dall’apologia del Ventennio, ma un liberale, un cattolico, un socialista convertito al bushismo, uno che tifi McCain e non il padreterno Obama, nelle palestre di penna si trova con la stessa facilità di un comunista a casa Veltroni. E’ edificante, nevvero? Quella spacciata ancora, a inizio del nuovo millennio, per lezione “alternativa”, è la solita solfa conformista che saprebbe di “libero” e nuovo perché tutto, per lorsignori, puzza di dittatura cavalleresca.
Nelle aule non si veste l’uniforme, ma l’80 percento degli aspiranti precari se la impone da sé: sdrucito di marca, testa inchiodata sui massimi sistemi (guai se li si distoglie dalla rivoluzione del proletariato col pensiero della schedina pallonara) e Repubblica e/o Manifesto e/o Le Monde Diplomatique e/o Nigrizia nella tracolla. Con l’ultima tele-predica di Travaglio nell’iPod. Tutti ci credono fino in fondo, non si sostiene che siano tutti allineati per convenienza – per carità – ma forse i selezionatori dovrebbero aggiustare un po’ il tiro. Diranno che è un caso, e allora facciano le quote, non rosa stavolta ma nerazzurre, per dare rappresentanza minima ai paria delle redazioni: non agli interisti, ma ai fasci e ai forzisti. Diranno che è un caso, ma forse la tesina su Pintor, al momento del test finale, vince sempre su quella su Mordini.
Per il novello giornalista con l’eskimo il viaggio è fatto di tappe comode, almeno sul fronte ideologico. Ora si è in troppi e anche lo scriba di sinistra è a spasso, ma se si presenta l’occasione è lui a saltare sulla barca, non il collega di uguale talento che legge Feltri e vota Berlusconi. Vince lui che entra nella scuola con la tesi de’ sinistra, fa il biennio de’ sinistra, si iscrive al sindacato unico de’ sinistra (ma “pluralista” – che bestemmia – a sentire i suoi capi), magari non ha un contratto da articolo 1 ma un po’ di collaborazioni con la pletora di giornali de’ sinistra sì. L’altro, che vota il Cavaliere, è figlio di un dio minore perché forse entra nella scuola di giornalismo, ma per professione di realismo non sogna neanche un articolo 1, e neanche pensa che potrà collaborare con un po’ di testate de’ destra, perché quelle de’ destra si contano con le dita di una mano. Quelle progressiste e “alternative” si contano sulle dita di mani e piedi moltiplicate per cinque. Tant’è.
Se si moltiplica per cinquanta la situazione individuale del giornalista nutrito a pane e progressismo, dovrebbe essere chiaro che l’ago della bilancia del sistema editoria del Bel Paese pende tutto a sinistra. E invece no a detta dei compagni, loro che il principio di realtà l’hanno sempre maldigerito preferendo la più sapida utopia, sostengono che la libertà di stampa è compressa dal caudillo di Arcore.
Hanno fatto bene i capi del sindacato, unico, sempre pluralista ed entusiasta davanti ai rossi vessilli, a scendere in piazza sabato 3 ottobre. Con Berlusconi che ammorba ogni anelito di Libbbertà – quella da loro intesa, che non avrebbe consentito di essere a Piazza del Popolo con una bandiera non arancio-rossa (smentiranno) – bisogna scendere in strada: chi non la pensa come il premier in effetti pare non abbia mezza gazzetta per sfogarsi, non possa sfotterlo via etere, non possa organizzare scioperi e piazzate. Tutto vero, a patto che ci si abbeveri all’eterna fonte dell’Utopia. Quella che stordisce a tal punto gli abbeverati da farli allarmare solo all’arrivo delle due querele berlusconiane, non a quelle dei querelanti di mestiere, i D’Alema, i Di Pietro, le Bindi accanto ai quali si sgolano sul pavè capitolino.
In stragrande maggioranza, tirando le somme sul fianco sinistro dell’editoria, questi barricaderi dei comitati di redazione sono facce di tolla deformate dall’ideologia. In stragrande minoranza sono giornalisti di sinistra, osservatori esemplari, che antepongono l’onestà intellettuale alla partigianeria più bassa, che chiude gli occhi e cancella la credibilità.
Ha ragione Sansonetti quando, a proposito della piazzata, nota: “Faceva un certo effetto, guardando la tv, sentire tutti che protestavano contro il premier che non permette si sparli di lui dalla tv di Stato. Protestavano proprio mentre sparlavano di lui: lieve contraddizione. Succede”.
Viva la partigianeria giornalistica, ma viva anche e soprattutto la “disorganicità”: perché l’ortodossia manichea fa ridere e la realtà oscurata dal fumo dell’ideologia fa piangere. Spiace che chi dice cose contro la propria parte venga sistematicamente “usato” dall’avversario. Ma è un uso assai nobile, dove il danno da “strumentalizzazione” è ampiamente compensato dal beneficio da stima. Perché praticare l’onestà intellettuale, il liberarsi dalla divisa castrante del “sempre dalla mia parte”, in questo Paese – dove dirsi italiani è un’optional, ma “di destra” o “di sinistra” un dovere – è da poveri eroi.
Orgogliosamente, penna nerazzurra.