2/ Tutto è cambiato tranne gli intellettuali
11 Settembre 2007
A sei anni dalle Torri
Gemelle siamo costretti a confessare un bilancio pessimo, sconfortante nella
lotta al terrorismo. Non il bilancio dell’Afghanistan, non quello dell’Iraq,
non quello della caccia a Osama Bin Laden. Quelle sono partite ancora aperte,
da giocare e vengono giocate. No, il bilancio peggiore di questi sei anni è un
altro: il fallimento totale, assoluto, incredibile degli intellettuali, del
mondo della cultura.
L’Occidente è ancora fermo lì, a gingillarsi
con il tifo per le due squadre degli schieramenti politici: i democratici a
demonizzare George W. Bush, con lo stesso, identico sarcasmo che usarono venti
anni fa per Ronald Reagan, i repubblicani a difenderlo, sempre più stancamente.
In Europa, i corifei degli uni e degli altri fanno da coro, con il di più di un
dibattito “di posizione” (iniziato dal
Foglio e poi ripreso dal Corriere, in Italia) sul tema: “Si deve o non si deve
discutere con Tariq Ramadan?”. Il che va benissimo, se non che il problema è che
discutere con lui è assolutamente una perdita di tempo, per la ragione cogente
che per lui l’esegesi, l’interpretazione del Corano è in pericolo di apostasia;
lui è disposto solo a discutere di sharia e di sue riforme; uno sterile
dibattito leguleio che può attirare solo neo global dalla canizie vituperosa
tutti contenti di scoprire che nel divieto coranico alll’usura si nasconde una
profonda critica allo strapotere delle multinazionali.
A nessuno, o quasi, viene in mente di
comprendere realmente cosa scrive Tariq Ramadan, nessuno, o quasi, si accorge
che Tariq Ramadan non testimonia una cultura politica, una visione teologica
dell’uomo islamico, ma che solo propone uno sterile riformismo delle norme
della legge coranica, da azzeccagarbugli, da giurista qual è, e non da teologo
quale, sbagliando, viene inteso.
Nessuno, o quasi, s’è dato la pena di leggere
il Corano e le interpretazioni aberranti che di esso vengono date. Prigionieri
del politically correct, a destra come a sinistra, si lascia a “loro”,
rappresentare le ragioni di un Islam di bassissima lega culturale e ci si
limita a ripetere stancamente i principi di Montesquieu.
Si fa della “voglia di dialogo” la
discriminante, senza accorgersi che è un dialogo semplicemente inutile. Solo Oriana Fallaci ha dato una scossa. Solo
pochi intellettuali in Italia e in Europa, meno ancora in America, hanno messo
le mani in pasta e hanno cercato di comprendere cosa c’è dietro Osama, cosa c’è
dietro Ahmadinejad, cosa sia il dibattito che percorre il mondo musulmano e che
produce l’uno e gli altri.
Non un passo, un passo significativo, è stato
compiuto nell’elaborazione di una dottrina politica in grado di analizzare
l’Islam radicale, di focalizzare il legame tra questo e il terrorismo e quindi
nell’indicazione dei principi di una strategia di contrasto.
Solo i neoconservatives americani si sono
impegnati su questo terreno e hanno dato non poco. Ma è sotto gli occhi di
tutti il fallimento della loro ricetta: la democrazia non ha mercato nel mondo
musulmano d’oggi, non attira, è un prodotto che “non vende”.
Le angoscianti difficoltà del contrasto
all’Islam radicale dell’Afghanistan e dell’Iraq ci riconsegnano la lezione mai
analizzata – colpevolmente – della guerra civile algerina iniziata nel 1991 e mai
domata: non è possibile sconfiggere il terrorismo islamico se non si sconfigge
il fondamentalismo islamico.
Il paradosso americano è racchiuso
nell’immagine di George W. Bush che passeggia mano nella mano con il re
Abdullah dell’Arabia Saudita nel prato della Casa Bianca senza rendersi conto
che quello che lui considera il suo principale alleato nella lotta al
terrorismo è – contemporaneamente – il più potente rappresentante dell’ideologia
dell’islam fondamentalista dei wahabiti salafiti che ha prodotto il terrorismo
stesso.
Non ha fallito la politica, in questi anni,
anzi. L’azione americana in Iraq e in Afghanistan ha permesso di enucleare due
Costituzioni, in particolare la
Costituzione irachena, che sono un vero e proprio “manifesto”
di una società pluralista, basata sul federalismo (quindi non autoritaria), in
opposizione al “manifesto” dell’Islam fondamentalista che è la Costituzione
khomeinista della Repubblica Islamica dell’Iran e ai principi dello stato wahabita
dell’Arabia Saudita che hanno creato il fenomeno al qaidista.
Non ha fallito la politica – che tiene grazie a
Bush la porta aperta in Iraq e Afghanistan – ma ha fallito la cultura, hanno
fallito gli intellettuali.
Ancora due giorni fa su Repubblica si poteva
leggere lo svarione di Ian Shapiro che continua a confondere il terrorismo di
stato della Libia di Gheddafi (tradizionale, trentennale arma di regime) col
terrorismo che miete decine di migliaia di musulmani ad opera di musulmani
dall’Algeria, alla Palestina di Hamas, all’Iraq, all’Afghanistan, al Pakistan.
Ancora dieci giorni fa, sempre sulla Repubblica, si poteva leggere una fine
intellettuale – un tempo – come Madeleine Albright, tuttora prigioniera dello
schema di un terrorismo arma degli Stati, incapace di comprendere che una
utopia nuova, una religione della morte, motiva masse enormi di fondamentalisti
e che questa – non gli stati che la manovrano – è il vero, drammatico problema.
Ancora sei mesi fa Thimoty Garton Ash
paragonava -sempre su Repubblica – Hezbollah e i terroristi islamici all’Eta e
all’Ira, senza rendersi conto dello strafalcione dozzinale.
Ogni settimana Javier Solana e Piero Fassino – senza
rendersi conto di essere inadeguati e patetici – ripetono la litania di un
terrorismo islamico che sarebbe mosso da ragioni irredentiste, nazionaliste
(per non parlare delle aperture di D’Alema e Prodi a Hamas). “Mister Europa” continua a dire che non può
credere che Hamas voglia distruggere Israele per ragioni religiose, mentre con
onesta franchezza e con comportamenti sanguinari, i dirigenti di Hamas
continuano a dichiarare – addirittura a scrivere nei loro Statuti che invece è
proprio quello che intendono fare in nome di Allah.
Ancora oggi i migliori diplomatici della
Farnesina – e purtroppo anche del Dipartimento di Stato – leggono nel programma
atomico dell’Iran una volontà di affermazione di legittime – in fondo –
aspirazioni a giocare un ruolo di potenza regionale.
Il dato di fatto semplice, detto, che
l’atomica di Teheran deve servire a distruggere Israele, perché prodotto da una
Shoà “inventata”, non viene colto nella sua terribile, dichiarata valenza.
Esattamente come quella hitleriana, l’utopia della “rivoluzione islamica” che unifica
iraniani sciiti e salafiti al qaidisti – che peraltro si scannano tra di loro –
ha nell’antisemitismo il suo architrave portante.
Ahmadinejad viene vissuto come fosse un pazzo e non ci si accorge che, invece, è un
nuovo caporale prussiano che ha un’incredibile capacità di muovere “la pancia”
di milioni di musulmani nella prospettiva di sterminare gli ebrei d’Israele.
Neanche i massacri crescenti di cristiani,
dalla Turchia all’Indonesia, stimolano alla riflessione. Né le condanne a morte
invocate dai “teologi” della “moderata” al Azhar del Cairo nei confronti dei
musulmani che si convertono pubblicamente al cristianesimo, sollecitano una
analisi su cosa sia, oggi, l’Islam marciante.
Un quadro incredibile, che porta a
rivalutare la figura di Neville Chamberlain, che fa comprendere come il suo
errore di Monaco, nel 1938, non fosse così banale.
Buona parte dell’Occidente – sicuramente quasi
tutto il suo mondo intellettuale – è convinto che oggi l’islamismo radicale
combatta una battaglia “per lo spazio vitale”. Si culla nell’illusione che lasciandogli la
“terra”, ritirando le truppe dall’Iraq e domani dall’Afghanistan, si ottenga
quel che Chamberlain (con la complicità di Stalin) si illudeva di potere
ottenere da Hitler libero di triturare e annettersi Cecoslovacchia e Polonia. Ma Hitler combatteva per l’utopia dell’Uomo
Nuovo ariano che ebbe il suo compimento nella Shoà.
Ahmadinejad, e al Qaida – e in modo più fluido
e dannunziano Tariq Ramadan – combattono per un Uomo Nuovo islamico,
profondamente antisemita, parimenti totalitario e feroce. L’Occidente, la cultura laicista e
meccanicista dell’Occidente non sa più leggere il mondo. Questo è il bilancio terribile a sei anni
dall’11 settembre. E non è facile porvi rimedio.