La Columbia perde il pelo ma non il vizio

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La Columbia perde il pelo ma non il vizio

07 Aprile 2008

Ancora una volta, la Columbia University dimostra la sua nonchalance in tema di Olocausto. La scorsa settimana, il ‘David S. Wyman Institute for Holocaust Studies’ di Washington ha organizzato una conferenza a New York per discutere i legami tra le università americane e la Germania nazista negli anni trenta, invitando a partecipare il presidente Bollinger della Columbia, una delle università in questione. Ma Bollinger non si è presentato e non ha inviato alcun delegato in sua rappresentanza.

Nella conferenza sono emersi fatti piuttosto sconcertanti sul prestigioso campus. Un professore dell’Università dell’Oklahoma, Steven H. Norwood, autore di un libro di prossima uscita sui rapporti tra mondo accademico americano e nazismo, ha raccontato come nel 1933 il presidente della Columbia Murray Butler, oltre ad invitare l’ambasciatore della Germania nazista per un discorso agli studenti, cercò di promuovere programmi di scambio con le università tedesche controllate dai nazisti. Butler licenziò un professore di storia dell’arte per essersi opposto alla visita dell’ambasciatore nazista ed espulse Robert Burke, uno studente che aveva guidato la protesta contro l’invio di una delegazione della Columbia a una celebrazione organizzata dal partito nazista in Germania all’università di Heidelberg (dove si studiava l’ideologia nazista, i professori ebrei erano stati già espulsi e i loro libri erano finiti al rogo).

In un’intervista con il Jerusalem Post, Norwood accusa Bollinger e la Columbia: “Sessant’anni dopo l’Olocausto, la Columbia non ha mai riconosciuto di aver fatto uno sbaglio, anche se ora sappiamo a cosa ha portato il fallimento nell’affrontare il tema del Nazismo, che non viene reputato tanto importante da guardarsi indietro e ammettere che sono state commesse delle ingiustizie”. Il direttore dell’ufficio stampa della Columbia giustifica Bollinger dicendo che l’invito alla conferenza è arrivato tardi, solo un giorno prima dell’evento. Ma il direttore dell’Istituto Medoff lo smentisce, precisando di aver inoltrato in largo anticipo numerosi inviti via mail e fax.

Forse Bollinger ha preferito sottrarsi a una situazione imbarazzante: alla decisione di Butler di accogliere l’ambasciatore nazista ha fatto seguito, solo sei mesi fa, l’invito della Columbia al presidente iraniano Ahmadinejad, che ha più volte auspicato la distruzione di Israele e rinnegato l’Olocausto.

Sono in molti, comunque, a ricordare che Bollinger, presentando al pubblico Ahmadinejad, lo ha descritto come un dittatore crudele e che per questo ha dovuto subire le violente critiche di vari professori universitari per non aver ricevuto “a modo” il presidente iraniano; gli stessi professori hanno anche bollato il suo discorso come “incendiario”, una riflessione sulla politica dell’amministrazione Bush in Medio Oriente.

Lo scorso gennaio, i media iraniani hanno dato notizia di un viaggio a Teheran che una delegazione della Columbia stava organizzando per scusarsi con Ahmadinejad. La Columbia ha smentito la notizia, ma ormai è indubbio che nell’università i simpatizzanti del dittatore siano numerosi. Nel mondo accademico, è meglio essere pro-Ahmadinejad che pro-Bush, giusto?

John Coatsworth, a capo del dipartimento di Affari Pubblici e Internazionali della Columbia, inizialmente aveva preso le difese di Bollinger, ma ora considera le sue a dichiarazioni “più difensive del dovuto, sia del pubblico che dell’istituzione”. Nel corso del dibattito che ha preceduto la visita di Ahmadinejad, era stato lo stesso Coatsworth a sostenere che nel 1939 avrebbe “sicuramente” invitato Adolf Hitler a parlare nel campus, poiché a quel tempo non erano ancora iniziati né la guerra ne l’Olocausto.

A questo punto è legittimo chiedersi come sia possibile che uno storico come Coastworth, che ha persino ricoperto la carica di presidente dell’American Historical Association, non sappia che già negli anni trenta Hitler ammazzava i dissidenti, aveva messo fuori legge i partiti e i giornali dell’opposizione, bruciava libri di autori ebrei e di altri “sovversivi”, che gli ebrei avevano già perso i loro diritti e che i pogrom e la notte dei cristalli avevano già avuto luogo. A Coatsworth andrebbe fatto notare che Hitler, anche se non si recò in prima persona al campus, mandò alla Columbia il suo più alto rappresentante negli Stati Uniti, l’ambasciatore tedesco, il quale parlò di “intenzioni pacifiche del Fuhrer”, proprio come oggi Ahmadinejad parla delle intenzioni pacifiche dell’Iran.

Eppure, le rivelazioni di Norwood sui legami della Columbia e delle altre università americane con la Germania nazista hanno provocato reazioni a difesa di Butler: Michael Rosenthal, autore della sua biografia, dichiara che Robert Burke, lo studente a capo della protesta contro l’invio di una delegazione dell’università in Germania, fu espulso “non per la sostanza anti-nazista della sua protesta, ma per il disturbo che la protesta aveva creato”. Rosenthal ammette che Butler, “antisemita, ma non in modo accanito”, era quasi sul punto di non accettare studenti ebrei in facoltà, ma che non avrebbe preso decisioni non condivise da altre università americane. Anche Alan Brinkley, rettore della Columbia e professore di storia, difende Butler: se si vuol definire Butler un “collaboratore”, allora bisognerebbe chiamare allo stesso modo migliaia di leader e cittadini di Stati Uniti, Gran Bretagna e di molte altre nazioni che simpatizzarono per il nazismo: dato che lo facevano tutti, non era poi tanto sbagliato…