Sul global warming il G8 fa promesse che non può mantenere
09 Luglio 2008
Dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050. L’impegno solenne del G8 – accompagnato da quello, meno ambizioso ma più realistico, di effettuare tagli "ambiziosi" nei prossimi decenni – suona un po’ come la fatidica scritta che si trovava una volta dietro le carte dei lecca-lecca: non hai vinto, ritenta.
I leader degli otto paesi più industrializzati del pianeta, di fronte alle gravi crisi alimentare ed energetica che sono chiamati ad affrontare, hanno scelto una politica pilatesca: se ne lavano elegantemente le mani facendo promesse che non potranno mantenere e sulle quali, in ogni caso, nessuno di loro sarà giudicato dagli elettori. Perché il 2050 è lontano, perché il global warming – ammesso che davvero costituisca una minaccia – richiede ben altri interventi strutturali, e perché va bene pensare alle generazioni future, ma prima ancora che evitare di essere morti nel lungo termine sarebbe opportuno assicurarsi la sopravvivenza nel breve.
In verità, la sciatteria della riunione di Hokkaido conferma un trend che già da tempo si era imposto, ed è quello relativo all’irrilevanza a cui il G8 si è condannato. Ai capi dei governi più influenti non si chiede di salvare il mondo: tutti sanno che non è nel loro potere e nessuno li condannerà se non ci riescono (e per giunta non esistono, al momento, minacce di estinzione per la razza umana). Gli si chiede però di prestare attenzione alle cose di cui parlano; di non limitarsi a leggere gli splendidi discorsi infarciti di nulla preparati per loro dagli sherpa, ma anche di provare a esprimere la loro leadership. Che richiede due cose: la capacità di comprendere la natura dei problemi, e la forza di proporre vie d’uscita che siano fattibili e condivise.
Tutto questo non c’è, al vertice giapponese. E il semplice fatto che, a fronte di un drammatico incremento dei prezzi di cereali e petrolio (cioè gli strumenti essenziali per vivere e spostarsi) l’impegno dei primi ministri riguardi la preoccupazione che possa fare cattivo tempo tra cinquanta o cent’anni è la dimostrazione di uno scollamento tra i dibattiti internazionali e la sostanza delle cose. Peggio ancora è l’alternativa, però: a controbilanciare il vuoto del summit, sembra esserci solo la chiacchiera populista contro la speculazione "peste del XXI secolo". Beato quel mondo che non ha bisogno di slogan.
Ovviamente, trovare risposte alle questioni urgenti è difficile, perché complesse sono le questioni che occorre risolvere e perché si può essere misurati, rispetto ai risultati delle proprie azioni. Ma se non si guarda alle cose in questi termini, di grazia, a cosa serve organizzare ogni anno un carvanserraglio che ha l’aspetto un po’ patetico di un raduno di sovrani medievali fuori tempo massimo?