Per Eluana lo Stato detta la sua “exit strategy”
11 Luglio 2008
Il caso triste di Eluana Englaro lascia trasparire, tra le altre cose, anche il lato inquietante di una biopolitica e di un biodiritto che mascherano ormai il loro tratti sempre più disumani e illiberali, concedendo come “diritto” ciò che, di per sé, è assai difficile considerare tale.
L’”umano”, anche in questo caso, non costituisce più un criterio indisponibile delle nostre azioni individuali e della politica in generale, ma diventa piuttosto un loro prodotto. E’ il potere che definisce i contorni della vita umana (l’inizio e la fine, il valore e la dignità); e lo fa in termini puramente funzionali, soppesando cioè volta a volta agli interessi in gioco –in questo caso la presunta volontà della giovane Eluana, manifestata quando si trovava nel pieno della sua esuberanza fisica e mentale, e lo stato vegetativo persistente nel quale si trova adesso- senza tuttavia minimamente considerare l’idea che possa esserci qualcosa per principio “indisponibile” a qualsiasi funzionalizzazione.
Preoccupa inoltre l’universo simbolico, all’interno del quale la decisione del Tribunale civile di Milano sul caso di Eluana Englaro viene resa accattivante e, proprio per questo, assai pericolosa; un universo simbolico che sembra ben rappresentato dall’ideologia della Grande Salute, della “Salute Perfetta”, come la chiama Lucian Sfetz, innalzata al rango di un ideale normativo, il più alto di tutti; il criterio della dignità della nostra vita; un “diritto” che il biopotere sembra ben lieto di concedere.
A questo proposito trovo assai illuminante la descrizione che Albert Camus, nel prologo di uno dei suoi romanzi più celebri, ci offre della città di Orano, la città della peste. “Non è mai piacevole essere ammalati, ma vi sono città e paesi che ti sostengono nella malattia, in cui si può, in qualche maniera, lasciarsi andare. Un malato ha bisogno di tenerezza, gli piace appoggiarsi su qualcosa, è naturalissimo. Ma a Orano gli eccessi del clima, l’importanza degli affari che vi si trattano, l’ambiente insignificante, la rapidità del crepuscolo e il genere di piaceri, tutto richiede la buona salute”. Guai dunque ad ammalarsi a Orano. Tutti gli sforzi possibili, dell’individuo come dello stato, debbono essere indirizzati al conseguimento dell’obbiettivo finale che è quello, come dichiara l’ Organizzazione Mondiale della Sanità, di “permettere alla popolazione di godere del suo diritto innato alla salute e alla longevità”. Il desiderio individuale, per sé comprensibilissimo, di vivere in buona salute e più a lungo possibile finisce per legittimare qualsiasi intervento della sanità pubblica sulla nostra vita. Guai a essere troppo grassi, guai a fumare, guai a condurre stili di vita “a rischio”, guai a mettere al mondo figli non perfettamente sani, guai a trascinarsi in una vita “indegna di essere vissuta”.
Qualcuno dirà che, facendola morire, non si fa altro che rispettare la volontà di Eluana, che sarebbe ora di fare una legge sul cosiddetto “testamento biologico”, ecc. ecc. Ma il punto è un altro. E riguarda proprio la strana combinazione che vedo emergere tra quella che Foucault, già trant’anni orsono, chiamava la tendenza alla crescente “statalizzazione del biologico” e il diffuso individualismo, secondo il quale sembrerebbe che ognuno debba poter realizzare come, dove e quando vuole i propri desideri di felicità. Si tratta di due logiche solo apparentemente contraddittorie che nella realtà si sostengano a vicenda. Direi anzi che la “statalizzazione del biologico”, come la chiama Fuocault, segua prevalentemente proprio la logica della sua radicale individualizzazione. Un po’ come accade nei romanzi fantabiologici di inizio secolo XX (si pensi a The Machine Man of Ardathia di Haldane o a Brave New World di Huxley), la rivendicazione del “diritto” a far nascere i figli come e quando vogliamo o del diritto a scegliere come e quando morire sembra configurarsi come un semplice stadio di passaggio sulla via rispettivamente di una sorta di ectogenesi artificiale, fuori del corpo umano, e di una exit strategy, chiamiamola così, ugualmente artificiale, entrambe sotto rigoroso controllo statale e grazie alle quali risolvere qualsiasi problema: dalla discriminazione delle donne all’invecchiamento della popolazione, dal problema dell’inverno demografico a quello dell’ordine sociale. E’ una prospettiva che, francamente, non mi piace.