Tra Usa e Bolivia è guerra diplomatica
12 Settembre 2008
Evo Morales espelle l’ambasciatore statunitense in Bolivia, Washington espelle l’ambasciatore boliviano negli Stati Uniti, Chávez espelle l’ambasciatore americano in Venezuela. E probabilmente non è finita: a parte una possibile cacciata anche dell’ambasciatore venezuelano negli Usa, fonti bene informate fanno trapelare come il Dipartimento del Tesoro potrebbe chiedere la messa in stato d’accusa dell’ex ministro dell’Interno venezuelano, Ramón Rodríguez Chapín, appena dimessosi per motivi misteriosi, e di dirigenti dei servizi, per presunti vincoli con le Farc. Mentre il Dipartimento di Stato potrebbe annunciare la fine delle frequenze aeree tra i due Paesi, “per mancanza di cooperazione venezuelana nei controlli”. Possiamo aggiungerci le manovre militari congiunte tra Russia e Venezuela che Chávez ha annunciato, spiegando comunque che “un paio di aerei russi” starebbero già in Venezuela. E la tensione tra il governo argentino e la magistratura Usa per lo scandalo del “Valijagate”: la storia degli 800.000 dollari che il faccendiere statunitense-venezuelano di origine italiana Guido Antonini Wilson cercò di introdurre furtivamente in Argentina il 4 agosto del 2007. Il processo a Miami, dove si era rifugiato, starebbe confermando l’illazione secondo cui i soldi erano in realtà un finanziamento di Chávez alla campagna elettorale di Cristina Kirchner: ragione per cui la stessa Cristina Kirchner ha parlato di “campagna spazzatura dell’Fbi”, al che gli è stato risposto che “negli stati Uniti la magistratura è indipendente dal potere esecutivo”. Il governo argentino si è dunque ora schierato con energia a favore di Morales nel nuovo braccio di ferro, anche se il ministero degli Esteri di Buenos Aires chiarisce che non è minimamente in esame una rottura con Washington: “Le relazioni sono ottime e non possono essere disturbate da problemi di questo tipo”. Sempre sornione, Lula ha intanto annunciato un accordo strategico di ampia portata con la Francia, per dare al Brasile un sottomarino nucleare.
Tutto inizia però dalla Bolivia, dove come era prevedibile l’esito del referendum del 10 agosto invece di rafforzare Morales lo ha indebolito. L’aver ottenuto i due terzi dei voti su scala nazionale, ma perdendo in quei quattro dipartimenti orientali che producono i due terzi della ricchezza del Paese, non ha fatto altro che riconfermare ancora di più ai ribelli l’idea che oramai la Bolivia nel suo complesso è per loro perduta, e che l’unica possibilità di evitare il “modello totalitario” di Morales, è questa la loro definizione, starebbe nella secessione: se possibile implicita, con i quattro statuti di autonomia amplissima che i dipartimenti di Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija hanno votato; se no, esplicita. Pur senza arrivare a eccessi separatisti è in rivolta anche il dipartimento centrale di Chiquisaca, offeso per il rifiuto di Morales di riportare nel suo capoluogo Sucre la capitale, dove era nel XIX secolo. E la dissidenza di Chiquisaca è importante dal punto di vista dell’immagine, perché se è vero che in particolare a Santa Cruz il separatismo della popolazione bianca e meticcia assume caratteristiche e slogan spesso dichiaratamente razzisti contro gli indigeni quechua e aymara dell’altopiano, che sono la grande base di sostegno di Morales, in compenso il prefetto ribelle di Chiquisaca è Sabina Cuéllar: un’india di estrazione ancora più umile dello stesso Morales.
A scatenare l’ultima escalation è stata la decisione di Morales di creare un fondo pensionistico in favore dei più poveri con i soldi dell’imposta diretta agli idrocarburi, in precedenza destinati al 40% per finanziare i dipartimenti produttori: che poi coincidono per i quattro quinti con Tarija. Ma anche Santa Cruz, Beni e Pando si sono infiammate, accusando Morales di voler utilizzare i fondi per trasformare il suo partito in una milizia armata. Probabilmente quest’ultima accusa non è che paranoia, ma effettivamente la mossa di togliere risorse alle autonomie locali proprio nel momento in cui queste affermavano con forza la loro esigenza di maggior autonomia è stata abbastanza provocatoria. Comunque, negli ultimi giorni la sommossa strisciante da mesi si è trasformata in rivolta aperta, con gruppi di ribelli che hanno occupato vari uffici pubblici, dal servizio Imposte Interne di Trinidad, capoluogo di Beni, alla sede della petrolifera di Stato Yacimientos Petrolíferos Fiscales de Bolivia (Ypfb) di Tarija. Scacciati i poliziotti e i dipendenti pubblici a colpi di pietra e bastoni, Morales ha allora fatto appello ai militari, chiedendo il deferimento dei prefetti ribelli al Tribunale Militare, per “minaccia alla sicurezza nazionale”. Ma i prefetti sanno benissimo che tra un governo di estrema sinistra e il separatismo i militari non hanno voglia di schierarsi, e dunque lo hanno sfidato nel modo più greve: “che ci si provi, e vedremo se ha le palle”, è la traduzione letterale della risposta del prefetto di Santa Cruz Rubén Costas. A Pando uno scontro tra sostenitori di Morales e ribelli ha ammucchiato 8 morti e 20 feriti, e a Tarija si sono contati 80 feriti.
Ha perfettamente ragione il vicepresidente, Álvaro García Linera, quando dice che i ribelli si stanno ormai incamminando sulla strada del terrorismo. Oltretutto, il fatto di aver tagliato pure le somministrazioni di gas a Brasile e Argentina minaccia di far saltare tutta la regione. Il guaio però è che García Linera stesso, quando sta lui al potere si lamenta tanto per la scorrettezza dei metodi di lotta politica; ma da oppositore si fece cinque anni di galera tra 1992 e 1997, lui e sua moglie, dopo essere stati sorpresi mentre cercavano di far saltare un traliccio. E quanto a Morales, da leader dei piccoli produttori di coca, i cocaleros, ha fatto saltare ben tre presidenti a colpi di manifestazioni e sommosse, prima di prendere il loro posto con un voto democratico. È vero che nel 2002 l’allora maggioranza lo aveva privato dell’incarico di deputato in seguito a certe sue dichiarazioni incendiarie, costringendolo all’azione extraparlamentare. Insomma, la Bolivia è ormai da tempo entrata in una spirale in cui diventa difficilissimo stabilire chi ha più ragione e più torto, ma di cui rischiano di essere vittime sia la democrazia, sia l’unità del Paese.
Ma analisi e autocritiche del genere sono difficili e penose da fare. Più facile è sostenere che è tutta colpa di una macchinazione Usa, senza la quale l’Oriente boliviano applaudirebbe Morales come un solo uomo. Philip Goldberg, l’ambasciatore statunitense appena espulso, ha la “colpa” di aver lavorato tra 1994 e 1996 come capo dell’ufficio del Dipartimento di Stato per la Bosnia-Erzegovina e tra 2004 e 2006 come capo di missione in Kosovo. Per questo, da quando nell’Est boliviano è iniziata la rivolta, la pubblicistica pro Morales lo dipinge come un “esperto in fomentare separatismi”. (Un’altra prova suppostamente “decisiva” è che gran parte del ceto imprenditoriale che si è messo alla testa della rivolta di Santa Cruz è di origine croata…). È vero pure che la settimana scorsa Glodberg si era incontrato con Costas: ufficialmente per discutere di cooperazione; più probabilmente per convincerlo a trattare con Morales, che sarebbe poi la linea ufficiale del sottosegretario all’America Latina Thomas Shannon, nota colomba di recente pure andato a parlare con Morales direttamente. Naturalmente, che ci siano linee di azione segrete diverse da quelle ufficiali è sempre possibile. Anche se, magari, in quanto segrete si presume che vengano da incontri segreti, e non pubblicizzati. Comunque, Morales non ha fatto alcun appunto ufficiale sulla base di procedure diplomatiche standard: tant’è che quando ha deciso l’espulsione Goldberg stava a colloquio con il ministro degli Esteri David Choquehuanca, senza che Choquehanca ne sapesse niente. Morales ha fatto un comizio; ha detto che “senza paura di nessuno, senza paura dell’impero. Oggi davanti a voi, davanti al popolo boliviano, dichiaro il signor Goldberg, ambasciatore degli Stati Uniti, persona non grata”; ha rinnovato le generiche accuse di “esperto in separatismo”; ha telefonato a Choquehuanca a metà del colloquio con Goldberg; e gli ha detto di trasmettergli il “non gradimento”.
Choquehuanca ha un profilo di ex attivista indigenista esattamente come Morales. Non è stato però sindacalista cocalero, ma ha studiato a Cuba, ed ha girato il mondo in convegni e forum. Si picca dunque di essere uno che ha compreso la complessità delle relazioni internazionali, per questo è andato agli Esteri, e non deve essere rimasto del tutto soddisfatto dal modo in cui suo malgrado è stato gestito l’affare. Infatti ha subito mandato una nota a Condoleezza Rice in cui ha spergiurato l’intenzione di “mantenere le relazioni bilaterali con gli Stati Uniti”. Ma ovviamente è arrivata subito la rappresaglia, e il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, ha subito annunciato che anche l’ambasciatore di Bolivia a Washington, Gustavo Guzmán, era dichiarato “persona non grata”, “in base a quanto stabilito dalla Convenzione di Vienna”. E “tutti gli aspetti” delle relazioni tra i due Paesi saranno ora soggetti a revisione.
Come all’epoca dell’incursione in territorio ecuadoriano delle forze speciali colombiane per uccidere il numero 2 delle Farc Raúl Reyes, anche stavolta Chávez si è ovviamente subito buttato a pesce sulla storia, dando all’ambasciatore Usa a Caracas Bernardo Álvarez “72 ore di tempo per uscire dal Paese, prima che lo caccino”, in solidarietà con Evo Morales: “Basta con questa merda che siete, yankee di merda!”, è stato il tenore del discorso. Va ricordato che il 23 novembre si vota in Venezuela per un turno di amministrative che minacciava di infliggere al partito chavista un duro rovescio, tale da creare nuovi ostacoli ai disegni del Presidente di cambiare la Costituzione per perpetuarsi al potere. E fare appello ad antichi risentimenti anti-gringos in America Latina è sempre una risorsa potente per recuperare consensi. Inoltre, l’Opec si è rivelata impotente a bloccare il calo dei prezzi del petrolio, e un abbassamento ulteriore minaccerebbe di lasciare Chávez senza le risorse per portare avanti la sua dispendiosa politica interna e internazionale. Riattizzare la tensione, agganciandosi anche al ritorno di Guerra Fredda tra Washington e Mosca, può essere un modo eccellente per rispingere i prezzi verso l’alto. Anche perché nel periodo di transizione fra la fine di un’Amministrazione Usa e l’inizio di un’altra i rischi possono sembrare minimi.