L’Europa che non vuole più lavorare

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L’Europa che non vuole più lavorare

L’Europa che non vuole più lavorare

12 Gennaio 2025

Margareta Steinrücke, sociologa tedesca e co-autrice di Work less, live more, analizza il drammatico cambiamento in corso nel mondo del lavoro e conclude che in Germania “i giovani hanno ripudiato l’etica protestante del lavoro che fu propria dei loro genitori”, perché sono testimoni “dei terribili impatti che ha prodotto”. Burnout, famiglie spezzate, bassa produttività, alienazione sociale e finanche il cambiamento climatico, sono il prodotto dello Spirito del capitalismo di weberiana memoria. Il lavoro, che l’etica protestante concepiva come “vocazione”, il mezzo attraverso il quale assicurarsi la grazia divina, oggi è il nemico pubblico numero uno.

Sindacati, psicologi del lavoro, sociologi, la solita politica dei salotti e una certa intellighenzia wokista, teorizzano un riequilibrio tra vita lavorativa e quella personale, tra il dovere e il diritto allo sviluppo individuale. Le ricette sono le più disparate, le teorie talvolta stravaganti, ma per come la si giri, la sostanza è una: work less, lavorare meno. Pare che i tedeschi si siano già portati avanti. Quest’estate sul Wall Street Journal è apparso un pezzo che titolava: A nation of workaholics has a new fixation: working less. L’autore riportava statistiche imbarazzanti per il paese che considera i propri cittadini degli hard workers.

Nel 2023 nella Germania in recessione si sono lavorate mediamente 1.343 ore, il minor numero tra membri OECD; ciascun tedesco si è preso quasi 20 giorni di malattia, uno dei peggior numeri europei e il record negativo storico, stando a quanto riporta la Techniker Krankenkasse, la principale compagnia assicurativa del paese.

Ricordo quando, durante la crisi dell’Eurozona del 2010, il dibattito pubblico in Germania si fece aggressivo, finanche derisorio, nei confronti di quei paesi colpevoli di essersi indebitati sconsideratamente per finanziare welfare d’oro e proteggere i propri lavoratori improduttivi. I Greci, si diceva, vanno in pensione a 57 anni, non hanno voglia di lavorare, vivono alle spalle delle generazioni future. La Fleiß, la diligenza e l’industriosità tedesca, unita alla disciplina finanziaria, erano l’unica medicina contro l’ignavia mediterranea.

E oggi? Nel 2023, i greci hanno lavorato il 40% di ore in più dei tedeschi, vanno in pensione a 67 anni, hanno appena varato una legge che rende possibile lavorare 6 giorni alla settimana. Sarà un caso, ma il Pil di Atene è cresciuto oltre il 2% negli ultimi 3 anni. Non occorre essere Calvinisti per comprendere il legame che c’è tra sviluppo economico e lavoro: senza lavoro non si genera ricchezza, non si può creare sviluppo.

Tuttavia, è necessario portare la riflessione ad un livello superiore, perché il dibattito sul lavoro è fondato su un enorme bias intellettuale sempre più pervasivo nel dibattito occidentale: la convinzione che la democrazia debba a tutti i costi tutelare i diritti, senza più occuparsi dei doveri. Così il diritto allo sviluppo personale viene ingannevolmente e colpevolmente opposto al lavoro: un errore imperdonabile!

Labor omnia Vincit, ci insegnava Virgilio, il lavoro vince su tutto, un’aforisma geniale per ricordare agli uomini che impegno e spirito di servizio sono il sale della vita, che attraverso le tribolazioni del proprio dovere si possono sorpassare tutti gli ostacoli, definire sé stessi e crescere; un motto brillante per insegnare agli uomini che il lavoro non è solo il dovere di un singolo, ma è il mezzo con cui ciascuno trova il suo posto nella comunità, contribuendo al suo sviluppo, e certamente, al mantenimento delle sue libertà e dei suoi diritti. Perché non occorre essere Calvinisti per comprendere che senza doveri non ci saranno più nemmeno diritti. ù

Questo dovrebbero andar in giro a predicare i sindacalisti, i sociologi, i consulenti, gli intellettuali e i politici: work more, live better!