Così il Governo vuol frenare lo shopping dei Fondi sovrani in Italia
17 Ottobre 2008
Crescono al ritmo di tre miliardi al giorno e solo quelli del Golfo Persico contano su una disponibilità di oltre 2000 miliardi di euro. Capitali freschi utilizzati per puntare su asset precisi all’estero, acquisire partecipazioni in grandi banche o portare a termine investimenti strategici di grossissima rilevanza. I fondi sovrani sono vere casseforti piene di liquidità, controllate dai Governi e utilizzate per investire in quote azionarie e altri titoli finanziari i surplus commerciali o le riserve di valuta. Ovvio che in piena crisi finanziaria, con le Borse in forte oscillazione e la recessione alla porte, siano attratti dai prezzi da saldi di Piazza Affari: hanno i denari da investire e puntano su un obiettivo per far gonfiare ancora il pallone di liquidità in loro possesso. Nel caso degli arabi, vogliono anche mettersi al riparo una volta che il petrolio sarà finito (cercano quindi di convertire le proprie rendite naturali, destinate ad esaurirsi, in rendite finanziarie).
E’ stata la crisi finanziaria generata dallo scoppio della bolla dei mutui subprime a far rimbalzare l’argomento sui media, condito, di volta in volta, da analisi su rischi e potenzialità (i fondi sovrani sono intervenuti con i loro capitali in istituti come Citigroup, Ubs, Barclays e Merril Lynch). Sono proprio le continue operazioni di investimento e la capacità economica sulla quale basano le proprie strategie di espansione a preoccupare l’Europa e gli Usa: quegli oltre 2000 miliardi di euro cui abbiamo fatto riferimento sono una cifra spropositata rispetto ai bilanci degli stati europei che, ahinoi, riescono a mettere assieme ogni anno e a fatica, avanzi primari per qualche miliardo di euro. La maggior parte dei fondi sovrani fa poi capo a Paesi non democratici. Sarebbe quindi forte il rischio che questi fondi si possano anche disinteressare dei benefici economici per perseguire obiettivi politico-strategici.
Di certo c’è che non vanno messi sullo stesso piano i fondi norvegesi e americani con quelli arabi, russi e cinesi (i più recenti e per molti versi i più aggressivi). La questione è molto delicata, i fondi sovrani sono il nemico numero uno per i protezionisti e possono essere una risorsa per i liberali. Vista quindi l’accresciuta importanza dei fondi arabi e l’espansione di quelli cinesi e di quelli russi, la preoccupazione di possibili interferenze da parte di governi stranieri sulla gestione delle industrie è montata anche in Italia, tanto da spingere il Presidente del Consiglio Berlusconi a mettere in guardia dall’invasione. Lo va ripetendo ad ogni occasione utile, pubblica e non. Pensare che perfino nel corso di una cena privatissima, secondo indiscrezioni di stampa, avrebbe detto di aver “strappato la villa sul lago Maggiore a un Fondo arabo”. Appena due giorni fa ha confermato acquisizioni massicce nel nostro mercato da parte di fondi arabi (“si stanno comprando tutto”, ha detto il premier), parlato di mercato italiano troppo esposto e quindi di aziende italiane a rischio scalata, paventato la possibilità di eliminare la passivity rule. Si tratta della norma del Tuf, Testo Unico della Finanza, che vieta agli amministratori della società sotto scalata di adottare misure anti-opa senza il consenso dell’assemblea. Detta in parole semplici ma efficaci: siccome in Italia la porta da cui possono entrare i barbari è sempre aperta, è arrivata l’ora di chiuderla e aprirla solo a chi ci pare (restano eventualmente da chiarire i criteri per i quali un ospite è più gradito rispetto a un altro) . L’idea di inasprire la normativa sull’Opa dopo l’allarme lanciato dal premier ha incontrato il favore di sindacati, imprese, classe politica. Secondo il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti “in Italia se ti scalano devi rimanere fermo. Noi come Tesoro, anche sentendo organi tecnici come la Consob, vogliamo introdurre una norma che allinei il nostro sistema a quello europeo". Lo scudo per le società italiane dovrebbe quindi essere varato al più presto con un emendamento da inserire in un qualsiasi decreto già varato in modo da recuperare una corsia preferenziale per una più rapida approvazione. E pensare che dietro il viaggio di domani ad Abu Dhabi di Franco Frattini, secondo indiscrezioni di stampa, ci sarebbe un intento ben preciso: capire quali siano le intenzioni degli arabi. Il ministro dovrebbe fare capolino negli Emirati per partecipare a un Forum Internazionale ma secondo molti incontrerà il presidente del Fondo sovrano degli Emirati.
Per Mario Baldassari, Presidente della Commissione Finanze al Senato, la soluzione alla malattia va cercata su più fronti: Siamo in una situazione anomala perché con questi chiari di luna in Borsa le scalate dei fondi sovrani possono avvenire con grandi profitti per loro: Unicredit valeva 100 miliardi e oggi ne vale 25 (tant’è che si è fatto avanti Gheddafi) ma il primo vero aiuto di Stato a cui il Governo deve pensare oggi – continua l’ex viceministro dell’Economia – è abbassare le tasse alle famiglie e alle imprese perché solo in questo modo si sostiene il ciclo dell’economia reale e quindi le banche”. Sul fronte europeo “la Bce deve tagliare i tassi di due punti e passare da Maastricht 1 a Maastricht 2”. Lo slogan che Baldassarri conia per l’Occidentale è: meno tassi e meno tasse per superare la crisi.
Veniamo ora al punto di vista liberale. Partendo dal presupposto che il vero asset da tutelare – quello di cui dispongono le economie europee e statunitense – è la qualità industriale dei complessi aziendali, i liberali sono favorevoli all’ingresso di capitali stranieri. Il punto da chiarire è grossomodo questo: come fare e su quali basi chiudere la porta a un Fondo sovrano piuttosto che a un altro? E soprattutto, perché non permettere a chi ha denari di acquistare? Un intervento dei fondi sovrani sulle banche e le imprese in crisi, come scritto su l’Occidentale esattamente un mese fa, procurerebbe alle economie occidentali più d’un vantaggio perché favorirebbe la permanenza delle competenze, dei centri direzionali e di ricerca nei Paesi in cui oggi sono radicate e contrasterebbe un processo di trasferimento di capitali in economie emergenti . Come evidenziato dall’economista Alessandro Carpinella sul nostro giornale, “è più rischiosa per i sistemi Paese la perdita dell’organizzazione aziendale di tre-quattro grandi banche internazionali con sede a New York, che peraltro già spinge verso Dubai, Hong Kong, Pechino intere squadre di finanzieri disoccupati, rispetto alla perdita della proprietà delle banche stesse”.
Respinge con forza l’allarmismo di questi giorni anche Salvatore Rebecchini del Comitato Scientifico della Fondazione Magna Carta, che spiega: “E’ molto difficile distinguere tra capitali buoni o non buoni, o si chiude definitivamente o si lascia libero accesso. Se i capitali circolano è bene che si mettano a frutto: se vogliamo che i titoli risalgano dobbiamo fare in modo che i capitali non impiegati in attività produttive vengano investiti”.
L’Italia è un po’ troppo accondiscendente e bisogna dare un freno? Rebecchini non è d’accordo. La proposta del Governo per l’economista ex presidente della Cassa Depositi e prestiti non è necessaria per salvaguardare l’italianità di Eni, Enel, Finmeccanica: “In queste aziende il Ministero dell’economia controlla almeno il 30 per cento delle azioni e esse sono quindi difficilmente scalabili. Per le Banche mi sembra incoerente chiedere di ricapitalizzarsi e poi vedere con ostilità l’arrivo di capitali stranieri; del resto le banche italiane sono state – giustamente – tra le più attive a fare shopping all’estero. Per contro – continua Rebecchini – porre restrizioni alla presenza di azionisti esteri o alla possibilità di lanciare Offerte pubbliche di acquisto rende le nostre imprese meno appetibili e quindi ne deprime il valore” con conseguenze gravissime per la nostra economia perché “i capitali interessati si indirizzeranno in altri paesi e i piccoli risparmiatori che volessero vendere le azioni in loro possesso avranno più difficoltà a farlo. Saranno invece più tranquilli i manager delle aziende messi al riparo dal rischio di vedersi scalare”. Vale davvero la pena? La domanda per il momento resta aperta.