Ora il governo può aiutare famiglie e lavoratori: ecco come
01 Novembre 2008
“Azzerare le conseguenze della crisi non è oggi un obiettivo realistico, ma attenuarne il peso e preparare il terreno per un rilancio più rapido e duraturo con appropriate misure di politica economica è possibile. Le politiche economiche nazionali contano”. Questo ha detto, a chiare lettere, il Governatore di Bankitalia, Mario Draghi.
Sono d’accordo, bisogna trovare un equilibrio virtuoso tra gli interventi volti ad alleviare nell’immediato i morsi della crisi e quelli più strutturali sui fondamentali dell’economia italiana, per garantirne una uscita dalla recessione il più veloce possibile e la capacità di produrre ricchezza almeno ad un ritmo pari a quello della media europea.
Siccome la spinta verso la prima tipologia di interventi è poderosa, io credo che il Governo debba tenere la barra dritta principalmente sugli interventi strutturali.
La richiesta del PD è la detassazione una tantum delle tredicesime. La proposta, per altro contenuta nel programma del PDL, completerebbe le defiscalizzazioni compiute dal Governo su straordinari e premi aziendali. Assomiglierebbe alle restituzioni fiscali dell’amministrazione Bush (fiscal rebates) ma avrebbe probabilmente effetti più incisivi: in Italia le famiglie sono meno indebitate di quelle americane ed è ragionevole pensare che userebbero le risorse anche per aumentare i consumi, non solo per rientrare dal debito. Ma, da tax cutter non pentito, mi chiedo che senso avrebbe ridurre le spese per detassare la tredicesima nel 2008 per poi ripristinarle nel 2009: si potrebbe invece “spalmare” lo sconto fiscale tagliando di un punto tutte le aliquote Irpef, a dipendenti ed autonomi.
Bisogna pensare e mettere in campo subito misure strutturali, in grado di garantire risultati duraturi anche se non immediati. La riduzione delle imposte attraverso una riduzione delle aliquote e l’eliminazione del fiscal drag consentirebbe di ridurre strutturalmente il cuneo fiscale, principalmente a vantaggio dei lavoratori. Per affrontare il problema dei working poor, i lavoratori poveri, si potrebbe considerare l’introduzione di una forma di imposta negativa, che garantisca un reddito minimo senza disincentivare l’offerta di lavoro e senza aggravare di costi insostenibili le imprese che operano in condizioni di bassissima redditività. Inoltre va dato un segnale generale sulle imposte, anche per imprese, lavoratori autonomi e salari medio-alti (va rotto un tabù, ridurre l’aliquota massima vuol dire attrarre lavoro altamento qualificato, più mobile e sensibile alla variabile impositiva). E, in questo quadro, per attrarre investimenti produttivi, si potrebbe pensare ad una radicale riforma degli incentivi per il Sud: taglio definitivo tra ogni forma di sussidio diretto e indiretto all’attività imprenditoriale e, in cambio, introduzione di una “no tax region” sul reddito d’impresa nel Mezzogiorno d’Italia (che, portando a zero tutte le aliquote, costerebbe solo 6,5 miliardi di euro in termini di mancato gettito Ires e Irap).
La riforma della contrattazione collettiva deve essere radicale, e atta a consentire aumenti salariali ovunque le condizioni lo consentano. Non ci si può aspettare che la spinta decisiva venga su questo dalla Confindustria: se è vero che sul piano generale tutti avrebbero di che guadagnare da un aumento dei salari, nell’immediato è chiaro che numerose imprese non vogliono vedere erosi i margini garantiti dai bassi stipendi. E neppure dai sindacati, che temono di perdere il potere di intermediazione garantito loro dalla contrattazione collettiva nazionale. Non penso che la riforma vada fatta “contro” le parti sociali, ma è certo che essa non può scaturire dalla logica neocorporativa che è stata negli ultimi quindici anni una delle cause principali delle basse retribuzioni e della bassa produttività del lavoro. Sul punto, occorre, dunque, una fortissima iniziativa politica.
Per affrontare la fase recessiva nelle sue implicazioni occupazionali andrebbe varata una riforma su basi universalistiche degli ammortizzatori sociali. Il sostegno al reddito per le persone disoccupate non può più essere discriminatorio come oggi: sette anni di robusto sussidio agli esuberi Alitalia o Fiat e pochi mesi ai licenziati di una piccola impresa. E neppure senza condizioni. Le esperienze straniere, ma anche quelle poche attuate nel nostro paese, evidenziano come la permanenza nei programmi di sussidio diminuisce drasticamente qualora vengano poste condizioni rigide al suo ottenimento, in termini di frequenza di corsi di riqualificazione, di impegno ad accettare un nuovo impiego e di diminuzione progressiva dell’importo erogato. La previsione di un sostegno generalizzato al reddito dei disoccupati deve servire anche a stoppare sul nascere le richieste di arrestare la riforma del mercato del lavoro e la rimozione di quelle rigidità che continuano ad inchiodarlo ad una dannosa dualità tra “precari” e “garantiti”.
Si dirà che mancano le risorse, per questi come per altri interventi. E’ vero, la crisi fiscale è grave e l’indebitamento grava come cento macigni. Ma è altrettanto vero che la diminuzione della spesa attuata con la finanziaria e i recuperi di efficienza della pubblica amministrazione, se non accompagnate da misure che diano respiro all’economia, rischiano di avere, keynesianamente, un accentuato impatto pro-ciclico. Anche dal punto di vista dei conti pubblici, del resto, il primo rischio da scongiurare è il circolo vizioso tra aliquote d’imposta elevate e bassa crescita. E’ piuttosto il momento di scommettere sull’effetto Laffer (diminuzione delle aliquote senza perdita di gettito), su una severa riduzione della spesa improduttiva, sull’alienazione del patrimonio per ridurre gli interessi passivi (e il rischio-Paese, variabile mai sopita come dimostrano le tensioni sullo spread tra Btp e Bund). Infine, le risorse per gli ammortizzatori sociali possono essere trovate nel calderone della spesa sociale: si deve riparlare di pensioni e soprattutto di età pensionabile. Il Governo Prodi ci ha lasciato in dote l’assurdo fardello di dieci miliardi di spesa previdenziale aggiuntiva in dieci anni, per assicurare a qualche centinaio di migliaia di cinquantottenni di lasciare subito il lavoro. Bisogna recuperare quelle e altre risorse per una spesa sociale che, dal punto di vista degli interessi diffusi, sia meno suicida e iniqua di quella attuale.