L’onda fa solo lotta politica ma non avanza mai nessuna proposta
03 Novembre 2008
Se c’è una cosa che colpisce, guardando da fuori d’Italia a questo strana coalizione anti-Gelmini, è quanto questa sia vuota quanto a rivendicazioni, pretestuosa sul piano delle obiettivi e completamente priva di cognizione di quanto sta succedendo nel resto del mondo occidentale.
Non so se i tanti professori che manifestano con gli studenti, occupano scuole e università, o fanno platealmente finta di fare lezioni in piazza, si ricordano delle parole d’ordine che scandivano nel loro preistorico Sessantotto. Allora a nessuno importava niente della lotta contro la riforma universitaria, identificata nell’allora celebre disegno di legge 2314 firmato dal ministro democristiano Luigi Gui (1967), come ha ricordato anche il Sen. Gaetano Quagliariello alla Camera dei Deputati (29 ottobre 2008). La lotta contro l’autoritarismo e i baroni universitari durò lo spazio di un mattino. Nel giro di poche settimane, lo scopo delle "lotte" divenne la fine del "sistema", l’obiettivo primario il "padrone" che sarebbe stato sconfitto attraverso l’unità tra studenti e operai.
Quarant’anni dopo i padroni sono ancora lì o quantomeno non se ne parla più, e gli studenti hanno sostituito il sogno dell’unità con gli operai con quello dell’unità con i professori, i presidenti dei corsi di laurea, i presidi di facoltà e i rettori delle università (o almeno la parte più vociante di loro), nonché con quello stuolo di lavoratori a contratto a cui è stato sempre fatto credere che, una volta agganciato un posto di lavoro qualsiasi esso fosse, prima o poi sarebbe arrivata l’abituale sanatoria all’italiana, indipendentemente dal fatto che essi fossero utili o inutili, essenziali o incapaci. È un bene tutto ciò? Visto che lo scopo di tanta unità non è più la lotta di classe, ma semplicemente la riforma del sistema di istruzione universitaria (o almeno così si sostiene), tanta foga sarebbe anche credibile, e forse utile, se davvero attaccasse la riforma universitaria in corso (che peraltro purtroppo non c’è ancora) proponendo in sua vece qualcosa d’altro, magari un nuovo modello di istruzione superiore che rimpiazzi quello attualmente in corso.
Così, purtroppo, non è. Qualche professore ha forse proposto l’abolizione del valore legale del titolo di studio? Qualche ricercatore si è detto a favore della fine del sistema dei concorsi-burla e della loro sostituzione con un sistema di cooptazione esclusivamente per titoli e colloquio? Qualche rettore ha forse proposto, magari in un domani ideale, l’abolizione del ministero dell’università e la responsabilizzazione diretta dei singoli atenei? Qualche studente ha suggerito un sistema di borse di studio che premi gli studenti maggiorenni più meritevoli indipendentemente dal reddito della famiglia di provenienza? Qualche corteo ha proposto che i finanziamenti statali vengano indirizzati soltanto su un piccolo numero di atenei virtuosi tanto dal punto di vista della gestione quanto da quello della produzione scientifica (come ormai avviene in Gran Bretagna e avverrà presto in Francia)?
Francamente, non mi pare che nulla di ciò abbia trovato l’attenzione delle manifestazioni studenti-docenti-presidi-rettori, che invece hanno tirato in ballo la solita vuotezza retorica sul significato della scuola pubblica, l’importanza dell’istruzione, i tagli alla ricerca, le difficoltà dei giovani nel trovare un lavoro adeguato al loro titolo di studio. Temi, si badi bene, su cui siamo tutti d’accordo (come lo saremmo sul fatto che il bel tempo è meglio del brutto tempo) e che rispondono a esigenze sacrosante, ma che, per chi li sbandiera in questo modo, significano una cosa soltanto: il sistema universitario dev’essere immutabile e l’unica cosa che chiediamo è avere più soldi per continuare a gestirli come si è fatto negli ultimi quarant’anni, cioè malissimo, visto di quale credito gode nel mondo l’università italiana.
Pretestuoso, dunque, questo cosiddetto movimento studenti-docenti, perché in realtà il suo unico scopo (come già lo fu quello del movimento studentesco del Sessantotto) è direttamente politico: attaccare il Governo Berlusconi e prendersela con il suo ministro, Mariastella Gelmini, che sarebbe stata svillaneggiata qualunque cosa avesse detto. A tutt’oggi, peraltro, il ministro si è limitata a dire cose di semplice buon senso con le quali qualsiasi persona di buona volontà non può non essere d’accordo, in parte addirittura prendendole di peso da indicazioni di tecnici-collaboratori del suo predecessore, Fabio Mussi, e innovando soltanto là dove ha aperto la strada alla trasformazione di quelle università che lo desiderino in fondazioni private (apertura che ci trova completamente d’accordo e che era già contenuta nell’ormai celebre decreto-legge n. 112 del 25 giugno 2008, firmato dal ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta).
Pretestuoso, questo movimento, anche in quell’attacco fuori tempo alle cosiddette baronie universitarie che viene soprattutto dagli studenti di destra, i quali in questo caso intendono dare una mano al governo e difenderlo dal resto del movimento. Certo, i casi di nepotismo universitario esistono, ma non più di quanto non esistano in qualsiasi ambito di lavoro. Ormai il sistema della docenza universitaria è così vasto che tali casi sono più l’eccezione che la regola. Procedendo per scandali e casi esemplari, secondo la pratica giornalistica per esempio di un Gian Antonio Stella (Corriere della Sera) si rischia di fare del giustizialismo all’italiana che porta alla convinzione che basterebbe tagliare alcune teste o quantomeno additarle al ludibrio del paese per rimettere a posto il sistema. Il che purtroppo non è vero.
Vuoto, pretestuoso, ma anche privo di cognizione e di senso della realtà su quanto sta succedendo al mondo, questo movimento studenti-docenti. Qualcuno di coloro che gridano contro i tagli e chiedono più soldi pare ignorare che un paese come l’Islanda ha fatto bancarotta pochi giorni fa, che l’Irlanda ha già tagliato (e di brutto) i fondi per l’istruzione e la ricerca all’indomani della grande crisi finanziaria dell’11 settembre 2008, e che tutti i governi europei stanno per passare a misure altrettanto drastiche. Il fatto che il Governo Berlusconi abbia cominciato ben prima della grande crisi finanziaria di settembre a mettere mano a una politica di risparmio e di razionalizzazione della spesa pubblica (il decreto Brunetta, appunto), dovrebbe essere un titolo di merito, non un ulteriore pretesto per attaccare sempre e comunque il governo.
Si tratta infatti di misure che qualunque governo, di qualsiasi coalizione, sarebbe stato costretto prima o poi a prendere, a meno di non mettersi a stampare banconote alla velocità del dittatore dello Zimbabwe, Robert G. Mugabe. Come avevano già sostenuto su queste pagine all’indomani del decreto (10 luglio 2008), nell’università saranno soprattutto quei giovani studiosi che continueranno ad andarsene dall’Italia a subire le conseguenze di questo decreto. ma non è che su questa strada che una nuova generazione potrà forse godere di un clima economico risanato, o quantomeno meno disastrato di quello che ci hanno lasciato in eredità trent’anni di malgoverno falsamente assistenzialista.