Distruggere il Tibet e chiamarlo progresso
09 Novembre 2008
Vi ricordate le espressioni di Massimo Troisi e Roberto Benigni in una delle ultime scene di Non ci resta che piangere, quando Leonardo da Vinci compare alla guida di una locomotiva? Chi pensa che siano state le stesse del popolo tibetano alla vista della ferrovia e dei primi vagoni cinesi sulla traiettoria Pechino-Lhasa alzi la mano.
Perché ciò che accadde nel 2006 purtroppo non è stata una commedia surreale, ma il culmine della tragedia che il Tibet vive dai tempi dell’occupazione comunista cinese. Anno 1950. Un viaggio nel tempo, che in poco più di mezzo secolo ha visto pianificare scientificamente la “liberazione” di un territorio e di un popolo. Condotta estirpando la millenaria cultura monastica tibetana, distruggendo tradizioni artistiche e spirituali, violentando e massacrando individui e comunità, spazzando via i delicati meccanismi su cui si reggeva il sistema economico preesistente. In nome delle uniche religioni ammesse agli altari votivi dalla satrapia cinese: il comunismo e Mammona.
Nel suo ultimo libro Il grande treno, edito per i tipi di Longanesi, Abrahm Lustagrten, attraverso le vicende che hanno riguardato la costruzione della ferrovia Pechino-Lhasa, inaugurata nel 2006 ma progettata fin dai tempi del “Grande balzo in avanti” maoista e passata attraverso le campagne del “Go West” di Jiang Zemin, racconta lo scorcio di storia asiatica che ha coinvolto Cina e Tibet in una delle pagine più drammatiche delle relazioni tra due popoli. Giornalista e reporter americano, Lustagrten, che collabora con il magazine Fortune e i quotidiani Washington Post e New York Times, ha viaggiato dalla Cina al Tibet per scoprire attraverso racconti e testimonianze le sensazioni, i progetti, le miserie di chi ha vissuto e sta vivendo la cancellazione identitaria e il soffocamento culturale del proprio popolo. E della propria anima.
L’abilità di Lustgarten sta nell’aver dato vita a un romanzo-reportage con le lenti distaccate dell’osservatore informato dei fatti, ciò che gli ha consentito di indagare anche le ragioni di chi in quei progetti aveva creduto fermamente e sinceramente (come molti funzionari di partito), con la convinzione che questa fosse la soluzione per lo sviluppo del popolo tibetano e la sua uscita definitiva dallo stato di povertà nel quale versava. Senza che nessuno si fosse chiesto – d’altronde come aspettarselo da una dittatura sanguinaria, che già aveva macellato la cultura e la filosofia cinesi e ricoperto di malversazioni e cemento la vecchia Cina urbana e rurale – cosa ne pensassero a Lhasa. Dove oggi, anche grazie alla ferrovia, che in due giorni trasporta da Pechino migliaia di colonizzatori, uomini d’affari e faccendieri, è stato sfigurato il quartiere storico di Barkhor, con l’avvento di alberghi luccicanti e bar americanizzanti, di negozi di cineserie al posto delle botteghe tradizionali, di case di prostituzione in cui esercitano donne cinesi e tibetane, non avendo più, queste ultime, altre forme di sostentamento. Dove oggi le campagne sono state spopolate e sostituite da cantieri in cui trovano lavoro solo i cinesi Han, l’inquinamento ha raggiunto livelli notevoli e le malattie alimentari hanno iniziato a diffondersi con insolita rapidità tra gli allevamenti.
Sviluppo, progresso. Membrane ideologiche sapientemente utilizzate dalla propaganda del Partito comunista cinese per coprire interessi geopolitici e geoeconomici. Perché il Tibet è ricco di risorse minerarie, tra cui gas, rame, oro e petrolio. Perché il Tibet costituisce un bacino di approvvigionamento di acqua potenzialmente infinito per un paese immenso, che cresce a ritmi ineguagliabili e succhia risorse da ogni parte del pianeta per sostenere la propria industrializzazione. Perché il Tibet è la periferia dell’impero, al crocevia con India e Pakistan, che non poteva certo essere lasciata scoperta in un mondo globalizzato, ma dove i vicini di frontiera diventano presto scomodi.
Sviluppismo e progressismo. Due ideologie senza valori e senza idee, che hanno contaminato l’Occidente ben prima delle remote periferie d’Asia, e che rischiano ora di tramutarsi da ideologie in barbarie. Anzi, per molti aspetti lo sono già.
Abrahm Lustgarten, Il grande treno, Longanesi, 2008