Inno all’Inno d’Italia
09 Novembre 2008
No al maestro unico, no ai voti in decimi, no al voto in condotta. Ma la grande manifestazione della scuola si è conclusa con l’Inno di Mameli: così come d’altronde anche quella del Partito Democratico; ma se vogliamo per una kermesse che si poneva più o meno esplicitamente come erede delle buriane del ’68 la cosa è ancora più clamorosa. Chiarimento dell’autore di queste note: per lui, l’Inno di Mameli va ascritto alla gozzaniana categoria delle “buone cose di pessimo gusto”. Certo che è brutto! Ma, punto primo, sta assolutamente nella media degli inni mondiali: salvo che la scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte degli italiani impedisce loro di rendersene conto. Secondo: definire “brutto” un inno nazionale è altrettanto insano che definire “non sexy” la propria madre o la propria nonna. Certe cose non devono essere belle; devono essere care, per ciò che rappresentano.
Fatta la premessa: ma che è tutto questo improvviso intonare dappertutto Fratelli d’Italia, dopo decenni in cui il cittadino medio ne aveva dimenticate perfino le parole? Facciamo qualche ipotesi. Numero uno: l’insistenza quasi monomaniaca di Carlo Azeglio Ciampi alla fine ha prevalso. Magari anche grazie alla sponsorizzazione degli atleti Azzurri: ma perfino i cittadini di un Paese in cui le categorie della “morte della patria”, del campanilismo esasperato, del “perisca la nazione purché la fazione viva” e dell’antistato erano diventate quasi la cifra del carattere nazionale, hanno appreso il semplice rito del cantare l’inno. Non è detto che insegnare a fare la raccolta differenziata, a non assentarsi dal lavoro, a rispettare gli avversari politici e a non trasformare gli spalti degli stadi di calcio in campi di battaglia sarà altrettanto facile: però a questo punto varrebbe la pena di provarci. Chissà, alla fine potremmo perfino arrivare a generazioni di studenti che non scendono in piazza a ogni inizio di scuola, perché trovano che è meglio studiare!
Poi c’è l’ipotesi numero due: c’è un recupero identitario generale, che sta saltando fuori nei momenti più impensati. Nel 2000 sempre l’autore di queste note aveva redatto assieme a Giovanni Negri un tentativo di analisi dell’identità italiana intitolato I senza patria, in cui sosteneva appunto che dopo il trauma dell’8 settembre erano stati i partiti in qualche modo ad assolvere un ruolo di supplenza nei confronti di una lealtà statuale disintegrata, secondo il modello che i politologi definiscono della “pilastrizzazione”. Salvo che dopo Tangentopoli anche questo schema sostitutivo era venuto meno, e che dunque le alternative diventavano stringenti. O costruire in tempi rapidi un nuovo sistema di lealtà partitiche altrettanto efficace: cosa che ci sembrava alquanto improbabile. O continuare nella disintegrazione individualista: cosa che ormai mostrava anch’essa la corda. O scommettere in una nuova lealtà verso il costituendo Superstato europeo: il che nel deficit di democrazia delle istituzioni Ue è a sua volta complicato. O arrivare a una nuova “pilastrizzazione” basata sulle lealtà campaniliste: che è poi la scommessa del federalismo, salvo che probabilmente in Italia non si è mai capito bene di cosa si tratta. Se no, perché tanto stupore, ora che si scopre la lapalissiana verità per la quale col federalismo in linea di principio non è che si pagano meno tasse, se ne pagano di più! A meno che non si riesca a utilizzare il voto per agire sui diversi livelli di governo nel senso di una loro riduzione: ma questo può venire solo in un secondo momento. Comunque, è bastata la prima crisi, e già tutti sono ridiventati statalisti. In testa la Lega, il cui ideale non è affatto meno Stato come si è illuso qualche liberista; ma semplicemente uno Stato assolutamente altrettanto clientelare e interventista come nella tradizione italiana; solo su un livello territoriale più piccolo. Insomma, la necessità di tornare a un forte senso dell’identità nazionale proprio perché nella globalizzazione non si può andare in ordine sparso ci sembrava ineluttabile; anche se non avevamo in realtà chiaro per quali vie traverse il miracolo potesse avvenire.
Prima o seconda ipotesi che siano, o anche tutte e due, l’esito potrebbe comunque confluire in una terza: in un movimento studentesco che lasci definitivamente perdere la palla al piede dei miti sessantottini, e cominci riformisticamente a lottare magari con durezza, ma per chiedere il possibile. Cioè, una scuola collegata al mondo del lavoro, efficiente, autofinanziata, selettiva al punto giusto, e in cui le occupazioni non siano un’esperienza esistenziale, ma un’arma sì legittima, ma da usare il meno possibile (l’autore di queste note da liceale guidò l’occupazione addirittura di un’aula consiliare; ma non in nome dei massimi sistemi, bensì per il semplice diritto a sbloccare alcune consegne di carburante per i caloriferi, che permettessero di stare in classe a gennaio anche senza cappotto…).
Purtroppo, il dubbio è che siamo semplicemente di fronte all’ipotesi numero quattro. Sparata di Bossi contro il tricolore dopo sparata contro l’Inno di Mameli, alla fine invece di ridiventare simboli di identificazione comune questi sono stati semplicemente degradati a emblemi di parte: io sto contro il governo; nel governo c’è Bossi; Bossi dice che l’Inno di Mameli non gli piace; e io allora lo canto! È d’altronde un po’ quello che è avvenuto col revival di Bella Ciao. Come sa bene chi ha studiato la storia della Resistenza, cioè quasi nessuno, non era in realtà quello l’inno dei partigiani. Anzi, in realtà un inno partigiano unico non esisteva. I garibaldini liguri e piemontesi cantavano Fischia il vento, quelli emiliani La Brigata Garibaldi, i Gielle piemontesi Pietà l’è morta a La Badoglieide, gli Autonomi di Mauri Azzurri, le Brigate “Di Dio” della Val d’Ossola Non c’è tenente né capitano, gli Osovani friulani Plui fuarz di prime, eccetera. Ma l’immaginate una celebrazione in comune a ascoltare prima “sventolando la rossa sua bandiera”; poi “sul cappello portiamo l’emblema/ dei reali di Casa Savoia”?! Così, per il ventennale del 1965 si scelse una canzone che sì qualche partigiano aveva cantato, ma molto poco; e proprio per il suo carattere ideologicamente neuro, di patriottismo generico, si raccontò che l’inno della Resistenza era stato quello. Serviva alla coalizione governativa, che in tempi di centro-sinistra aveva deciso di rivalutare la Resistenza come simbolo di unità nazionale. Ma serviva anche al Pci, che finalmente comprese come proprio per valorizzare la propria ampia partecipazione alla Resistenza come strumento di legittimazione doveva paradossalmente accettare di sostituire al’immagine della Resistenza Rossa quella della Resistenza Tricolore: appunto, per evitare che invece di essere la Resistenza a legittimare il Pci fosse il Pci a delegittimare la Resistenza.
Non piaceva Bella Ciao, invece, proprio agli ultrasinistri dell’epoca, che infatti coniarono un famoso slogan: “la Resistenza è rossa/ non è democristiana”. E guardiamo un po’ il modo in cui proprio la Bella Ciao simbolo buonista di conciliazione è adesso diventata l’inno dell’antiberlusconismo più intransigente!