Siamo tutti antiamericani (nonostante Obama)

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Siamo tutti antiamericani (nonostante Obama)

Siamo tutti antiamericani (nonostante Obama)

09 Novembre 2008

Tempo di elezioni negli Stati Uniti, tempo di avvicendamenti, dopo una campagna elettorale che a noi del Vecchio Mondo è sembrata lunghissima. Ridiventa attuale, in momenti simili, chiedersi che cosa rappresenti questo paese per noi. Per noi italiani, intendo, ma anche per noi come europei. Prima di tutto, va detto che l’America (chiamiamola come nel linguaggio comune, dove si “mangia” l’America del Sud e il Canada restando da sola a rappresentare il continente americano) è per noi molte cose contemporaneamente. E’ soggetto della politica internazionale, con il quale si possono avere rapporti più o meno stretti, di amicizia o inimicizia, di sudditanza, di allenza, di neutralità. E’ potenza economica, produttrice e consumatrice, nei confronti della quale possiamo essere timorosi per la concorrenza e l’invasione dei suoi prodotti, lieti di poter esportare le nostre merci, ansiosi per un possibile neo-protezionismo: in ogni caso, riconosceremo che nella globalizzazione dei mercati svolge un ruolo di primo piano. E’ un soggetto sociale: gli uomini e le donne americani, i villaggi e le metropoli, la campagna e le zone industriali, formano un insieme sociale inconfondibile, sul quale si sono esercitati a lungo gli americani stessi e gli osservatori stranieri, i sociologi di professione e i dilettanti (tra i quali alcuni filosofi di fama, come Herbert Marcuse negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso). E’ un soggetto culturale: la cultura americana è composta dai suoi scrittori (in passato Melville o Steinbeck, oggi piuttosto Philip Roth), dai suoi intellettuali, i suoi musicisti, i suoi artisti maggiori. Anche in questo caso si tratta di una realtà potente, imponente quantomeno nel mercato culturale. Non dobbiamo neppure dimenticare che l’America può essere soggetto militare: in due occasioni nel corso del Novecento si è avvicinata all’Europa e alle sue faccende belliche, intervenendo in due guerre mondiali a distanza di alcuni anni; e vi sono fronti aperti nei quali ha luogo tuttora una guerra guerreggiata da parte degli americani.

C’è un ultimo modo in cui è possibile considerare gli Stati Uniti: come protagonisti dei nostri sogni o dei nostri incubi, delle nostre speranze o delle nostre paure. L’America, infatti, ha generato di qua dall’Oceano un immaginario grande almeno quanto il paese che esiste davvero, se non di più: quell’immaginario – negativo e positivo – è costituito dai racconti di chi vi si è recato, dalle lettere degli emigrati, dalle sensazioni che gli europei hanno provato, dalle idee  che se ne sono fatti per averlo visto oppure (più spesso) senza vederlo. Si sa, non è affatto necessario viaggiare fin lì per conoscerlo: è una banalità dire che la nostra cultura, il nostro modo di vivere, sono modellati su quel paese, ma è una banalità vera. Fast food e Coca cola, velocità e grattacieli, esistono anche da noi, e un certo produttivismo, un certo materialismo, una preponderanza del lavoro nell’esistenza della gente, che non si vergognano a mostrarsi ma anzi vengono esibiti con un certo orgoglio, sono divenuti anche qui un modo di vivere diffuso. Del resto, come potrebbe essere diversamente? Basti pensare a quanta parte del cinema, e spesso del migliore, è made in USA, e a quanto grande è la forza delle immagini e degli stili che quel cinema veicola.

Se scegliamo il punto di vista che guarda all’America come ospite del nostro immaginario, considereremo quel paese non come uno stato né come un soggetto economico e neppure come un soggetto militare, ma come una civiltà: una civiltà complessiva, una unità, un tutto con una fisionomia riconoscibile. Gli aspetti contrastanti, contraddittori, dell’America, saranno tutti ricompresi in quella unità. Considerarare un qualunque paese come una civiltà agevola le cose per l’osservatore, ma produce indubbiamente generalizzazioni e semplificazioni in grande quantità: le sfumature e le differenze si perdono a vantaggio di tratti netti e uniformi. Com’è fatta la civiltà americana da questo punto di vista? E’ grande, anzi gigantesca. E’ produttiva e ricca, anzi ricchissima. E’ molto interessata alla produzione e al lavoro, anzi non fa altro. E’ democratica, anzi egualitaria: è il regno del tutto uguale, dove l’individuo è fatto in serie, una sorta di comunismo senza ideologia. E’ libera, anzi no: vi regna il dispotismo della produzione, della materia, del tutto sociale che schiaccia l’individuo. E’ individualista, ma mica tanto, o forse lo era in un passato perduto. E’ senza gusto, anzi è orribilmente senza gusto: una barbarie più che una civiltà.

Tutto questo vale sia che dell’America come civiltà si pensi bene sia che se ne pensi male, ma soprattutto nel secondo caso. Va detto che dall’Europa spesso e volentieri se ne è pensato male: l’antiamericanismo ha caratterizzato come una corrente di lunghissimo periodo lo sguardo europeo sul Nuovo Mondo. Una delle ragioni sta proprio in quel nome: Nuovo Mondo. Già, perché quel che manca all’America è proprio la vecchiaia, la storia, la sedimentazione lenta dei secoli. La storia, come notava genialmente Nietzsche nella sua Inattuale più famosa, per noi europei è generatrice automatica di valore, di valori: il gusto, il buon gusto, la civiltà, e anche un certo disincanto verso il nuovo, il giovane, l’impetuoso, vengono proprio dall’aver provato già tutto, visto già tutto. Come notava Alexis de Tocqueville nel suo viaggio americano nella terza decade dell’Ottocento, l’America era nata democratica: non aveva avuto bisogno di lottare contro l’aristocrazia perché la classe nuova e produttiva (la borghesia) potesse affermarsi. E così era integralmente democratica (anche nelle idee), a differenza dell’Europa.

Si può dire che l’antiamericanismo abbia caratterizzato e caratterizzi una buona fetta dell’atteggiamento europeo verso l’America: in Italia è stato ed è un atteggiamento trasversale, né specificamente di destra né specificamente di sinistra, che ha caratterizzato una parte dei cattolici, una parte dei moderati, una parte dell’estrema destra (e della destra metapolitica) e la sinistra più culturalmente antimoderna. L’antiamericanismo così inteso non si identifica con la lotta o la critica politica verso gli Stati Uniti: si può essere americanisti criticando la guerra in Iraq, e, al contrario, essere favorevoli alla guerra del Golfo e insofferenti verso la cultura in pillole del paese della Coca cola, cinema hollywoodiano in testa.

Esce ora in italiano un grosso volume pubblicato nel 2002 in francese: Il nemico americano, di Philippe Roger. Il sottotitolo recita: Genealogia dell’antiamericanismo francese. L’autore intende ricostruire i precedenti di quell’atteggiamento che caratterizza fortemente la Francia attuale e che consiste nel disprezzare gli yankee, ingenui e privi di cultura. I principali stereotipi del discorso antiamericano, dal 1750 in poi, vengono esaminati: la giovinezza, l’immaturità fisiologica e intellettuale, il rapporto fra democrazia e sterilità artistica, il totalitarismo dolce, la civiltà astratta, l’industria culturale, il materialismo, l’assenza di gusto, l’omologazione, la minaccia per il Vecchio Mondo. Si passa dall’Illuminismo ai maggiori scrittori francesi dell’Ottocento: Balzac e Stendhal. E’ noto che la ricerca dei padri fondatori è vana e spesso inconcludente nella storia delle idee, anche se in un testo che si intitola alla genealogia non sarebbe stata fuori luogo. Il tentativo di rintracciare i primi o i più importanti autori di quegli stereotipi qui non viene fatto per niente, tanto è vero che da questa indagine sull’immagine dell’America manca proprio un autore centrale come Tocqueville:  semplicemente, si ricostruisce l’immagine negativa dell’America nella seconda metà del Settecento e nell’Ottocento, fino alla guerra ispano-americana, assai rilevante per la formazione dell’antiamericanismo, e agli anni Trenta del Novecento. Se genealogia significa fare l’elenco a ritroso nel tempo di coloro che sono stati antiamericani, l’obiettivo è stato centrato. Se invece genealogia significa valutare il peso di correnti, autori, ideologie e politiche sulla costruzione del discorso antiamericano, l’obiettivo è fallito.

Roger si muove con destrezza fra gli autori trattati, ma lascia alcuni dubbi. Prima di tutto, una ricerca davvero genealogica avrebbe probabilmente dovuto risalire oltre il limite del 1750. E poi, perché non arrivare ai giorni nostri? Gli ultimi decenni della vita culturale francese ci hanno offerto esempi davvero non trascurabili di antiamericanismo, a partire dalla difesa della lingua francese rispetto all’inglese e della cinematografia esagonale rispetto a Hollywood, per non parlare del gaullismo. E ancora: non si sopravaluteranno in questo modo i romanzieri a scapito degli autori politici, degli studiosi di scienze sociali e degli storici? Perché gli scrittori di fiction dovrebbero risultare i protagonisti principali (come accade in questa ricerca) di una corrente così legata all’identità francese? In questo modo si fanno valutazioni errate: ad esempio, si equivoca sull’importanza di Paul Valéry in questo tema. Intendiamoci, non discuto la grandezza del personaggio, ma non si può affermare che l’antiamericanismo francese degli anni Trenta prenda le mosse dai suoi scritti. E perché, poi, la Francia sarebbe la culla dell’antiamericanismo? Non ci pare affatto: basta guardare all’Italia e alla Germania per tutto il corso del Novecento, risalendo al secolo precedente.

Non sarà che i francesi, quando scoprono un tema, devono mettercisi per forza al centro, affermare ancora una volta la loro supremazia anche se – come in questo caso – il tema non è particolarmente degno di vanto?

P. Roger, Il nemico americano, trad. it. Palermo, Sellerio, 2008, pp. 541, euro 28.