Quel pasticciaccio brutto della Commissione di Vigilanza

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Quel pasticciaccio brutto della Commissione di Vigilanza

17 Novembre 2008

Ha ragione Anna Finocchiaro: la vicenda che ha portato all’elezione del nuovo presidente della Commissione di Vigilanza viola una prassi parlamentare. Vediamo perché, per responsabilità di chi e con quali conseguenze istituzionali.

La prassi di cui si parla è quella per la quale alcuni incarichi di garanzia vengono assegnati seguendo le regole non scritte della democrazia condivisa: all’opposizione il diritto di proposta; alla maggioranza il dovere di non utilizzare la forza dei numeri, per convergere su un nome, non sgradito, avanzato dai propri avversari. Grazie a questo metodo, solo a titolo di esempio, sono stati eletti Presidenti della Camera Nilde Jotti e Giorgio Napolitano. E sempre grazie a questo metodo, più prosaicamente, fu eletto presidente della Commissione di Vigilanza Francesco Storace invece di Ombretta Fumagalli Carulli, proposta in prima battuta dall’allora opposizione di centro-destra e non ben accetta dall’allora maggioranza di centro-sinistra.

 

La prassi, dunque, implica un sottile quanto essenziale equilibrio tra il potere del Parlamento e quello dei partiti. Il processo di scelta non deve essere integralmente “parlamentarizzato”, per non cadere nelle dinamiche proprie di un regime d’assemblea. La pratica, però, non può neppure essere devoluta per intero ai partiti per non passare a un regime di direttorio, in Italia più volgarmente noto come partitocrazia.

Proviamo ora a interpretare i fatti che hanno portato all’elezione del parlamentare del Pd Riccardo Villari al vertice della Commissione di Vigilanza, alla luce di queste considerazioni.

In principio il centro-destra aveva espresso una forte perplessità verso l’ipotesi che una commissione di garanzia potesse essere presieduta dall’esponente di un partito che affermava apertamente di voler utilizzare quella posizione per una battaglia di parte sul tema dell’informazione in Italia. Da qui l’originario no a Leoluca Orlando.

A un certo punto, però, è stato effettuato un tentativo serio per superare quel veto. Il tentativo è fallito per due ragioni.

In primo luogo Orlando ha pensato bene di concedere un’intervista al Corriere della Sera nella quale paragonava il governo del centro-destra a una giunta militare argentina. E chiunque può comprendere che è veramente arduo domandare a una maggioranza di concedere i propri voti a chi su di essa esprime un simile giudizio.

Poi, come se non bastasse, l’opposizione ha preteso che il centro-destra cambiasse il nome del suo candidato alla Corte Costituzionale, per motivazioni legittime ma assolutamente non condivise. Cosa che il centro-destra ha fatto mettendo da parte la candidatura di Pecorella per quella di Frigo, nella convinzione che ciò avrebbe comportato per logica conseguenza la rimozione del nome di Orlando.

Invece no: l’opposizione ha “intignato”. E per di più ha preteso di “parlamentarizzare” la vicenda richiedendo votazioni a oltranza e alzandosi ogni giorno in aula per annunziare che un’altra votazione si era consumata senza che la situazione si fosse sbloccata per l’atteggiamento ostruzionistico della maggioranza. L’intento era tanto evidente quanto puerile: trasformare un diritto di proposta in un diritto di imposizione, e trasferire sulle spalle della maggioranza la responsabilità di una situazione di stallo che aveva paralizzato l’organo di garanzia e, di conseguenza, la vita interna della Rai.

Di fronte a questo tentativo, i vertici parlamentari della maggioranza non hanno avuto altra scelta che seguire fino alle estreme conseguenze la via parlamentare indicata dall’opposizione: non far più mancare il numero legale, spingere l’opposizione a presentare una terna di nomi tornando così nei binari della prassi e, solo in ultima istanza, votare per un membro dell’opposizione diverso da Orlando.

Tutto ciò è avvenuto alla luce del sole. Ma non ha portato a un cambiamento di tattica da parte dell’opposizione, che è rimasta abbarbicata al nome di Orlando. E’ così divenuto evidente che la violazione della prassi dipendeva, in realtà, da un incoffessato riflesso partitocratico.

Tale situazione è emersa chiaramente quando, di fronte al fatto che neppure tutti i voti del suo schieramento erano andati a Leoluca Orlando, per tutta risposta è stato chiesto di violare la segretezza del voto, come alcuni commissari della Vigilanza hanno candidamente dichiarato.

A fronte di questo svolgimento dei fatti, la posizione del neo-presidente Villari appare impeccabile. Fedele al suo partito ma fedele anche alle istituzioni, egli si è detto disposto a dimettersi appena la prassi verrà ristabilita e vi sarà per questo un nome, proposto dall’opposizione e accettato dalla maggioranza, pronto a sostituirlo evitando nuovi blocchi.

Per tutto questo l’elezione di Villari, nata come una partita tattica, si è trasformata in una battaglia in difesa della buona prassi parlamentare contro chi, utilizzando la copertura di un parlamentarismo esasperato, per prepotenza o per incapacità, avrebbe voluto rimettere in circolo pratiche partitocratiche e neppure di buon conio.