Quella di Samuel Huntington non è una scomparsa, è una perdita

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Quella di Samuel Huntington non è una scomparsa, è una perdita

02 Gennaio 2009

Non ricorderò Samuel P. Huntington per il tanto citato e altrettanto criticato “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (Garzanti in italiano, se ne è parlato fin troppo) né per il suo saggio migliore, che a mio parere resta “La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo” (in taliano dal Mulino, ma non ce l’ho sottomano). Vorrei ricordare invece questo storico statunitense, battagliero e fiero di esibire le sue idee anche quando sapeva che non erano gradite, per un suo saggio uscito in originale nel 2004 e in italiano l’anno successivo: “La nuova America”. Qui da noi non se ne accorse nessuno, mentre in patria aveva suscitato il solito vespaio. Il libro si occupava di un tema che iniziava a diventare spinoso in America e che lo sarebbe divenuto di lì a poco anche in Italia.

Possiamo esprimerlo con una domanda: che ne è dell’identità nazionale quando il multiculturalismo presente sul suo suolo supera limiti accettabili? Proprio questo, nell’opinione di Huntington, stava accadendo negli Stati Uniti in quel momento: gli ispanicos (termine con il quale gli americani del nord indicano in generale tutti coloro che provengono dall’America latina) avevano raggiunto fra gli immigrati negli USA una percentuale largamente dominante, e la loro presenza minava quel melting pot, quel crogiolo, grazie al quale tutte le nazionalità immigrate si erano fuse in una – quella americana – fino ad allora. Lo minacciavano con la lingua prima di tutto, poi con le tradizioni, con il modo di vivere, con i sapori della loro cucina, con la musica, con i balli che danzavano, ma soprattutto con la religione. Il cattolicesimo praticato in massa dai latinos si opponeva al protestantesimo originario e fino a quel momento dominatore incontrasto sul suolo nazionale. Molti dunque i motivi d’allarme: questi avevano spinto l’autore a scrivere un ponderoso volume che aveva una parte analitica e una propositiva.
Nella parte analitica Huntington ripercorreva la storia degli Stati Uniti fino dalla colonizzazione britannica e soprattutto dallo sbarco sulle sue coste nel 1620 di un gruppo di esuli inglesi (i pilgrims fathers) spinti ad allontanarsi dalla madrepatria dalla loro fede religiosa, diversa dal protestantesimo anglosassone. Alle origini della nazione statunitense c’è dunque un elemento religioso: Huntington lo sottolinea con forza e afferma che la prima identità collettiva della nazione americana fu proprio religiosa, di rami dissidenti della famiglia protestante, tutti piuttosto pii e rigorosi. In seguito però gli Stati Uniti nascenti si dettero un’identità anche civile: ed ecco il “credo”, l’insieme di convinzioni, ideali e regole alle quali un vero americano aderiva e che componevano la sua identità di americano: eguaglianza, libertà, giustizia, individualismo.
Un altro mito fondante della nazione americana è – come è noto – quello della frontiera. Su questo esiste il libro fondamentale e molto bello di Frederick J. Turner, La frontiera nella storia americana, e chiunque abbia visto un film western sa di che cosa parlo: della conquista di pezzi sempre più ampi di territorio americano spingendosi da est a ovest a spese degi pellerossa che fino a quel momento avevano vissuto lì.

Le migrazioni massicce e inarrestabili soprattutto dall’Europa pongono nel tempo una serie di problemi agli Stati Uniti: come riuscire a integrare tutti quegli individui dalla lingua, i costumi e le origini nazionali diverse? Diciamo che il problema dell’integrazione non si è mai posto: tutti gli immigrati si sono integrati, hanno imparato velocemente la nuova lingua, e insieme alla lingua e al lavoro sono divenuti americani nei modi, nelle abitudini, nei divertimenti. Questo è il melting pot: quella pentola nella quale le diverse nazionalità si sono sciolte per lasciare il posto alla nuova nazionalità, quella statunitense. Melting pot però poteva significare due cose: abbandonare completamente ciò che si era stati in precedenza (tedeschi, olandesi, irlandesi, italiani o altro) per diventare americani; oppure diventare americani conservando però alcune parti non secondarie della propria nazionalità di origine. Le cose sono andate nel secondo dei due modi possibili, ma Huntington non lo dice: nel suo libro sembra che fino a tempi recentissimi l’assimilazione degli immigrati con l’America sia stata totale, e ogni legame con le vecchie patrie reciso. Nient’affatto: ogni etnia, ogni minoranza nazionale, ha conservato alcune delle sue tradizioni (ad esempio culinarie), alcune delle sue abitudini (ad esempio il festeggiamento del patrono nazionale, nel senso della vecchia patria), alcuni dei suoi modi d’essere che fanno sì che gli immigrati italiani si sentano anche italiani e i tedeschi anche tedeschi, oltre che americani. Questo non ha mai posto alcun problema al melting pot, Huntington ha ragione ad affermarlo: ma va anche ricordato che la fusione prodotta da quel crogiolo è stata percepita in crisi fin dall’inizio, mai salda, mai efficace, mai definitiva. L’assimilazione c’è evidentemente, dunque il meccanismo di fusione funziona. Ma le vecchie identità resistono, sono coltivate, protette ed esibite: e forse rappresentano proprio una compensazione per l’adesione a una nazionalità nuova, che è comunque un passaggio difficile.

La parte propositiva del libro indica invece quali dovrebbero essere i provvedimenti da assumere per evitare lo sfascio dell’unità nazionale. Prima di tutto, dovrebbe essere rafforzata in ogni modo la prima e più autentica identità del paese, che Huntington definisce anglo-protestante (la prima fra quelle citate): come lingua inglese prima di tutto, come fede protestante, come simboli esibiti, come feste celebrate, come personaggi eminenti scelti all’interno di essa. Poi, si dovrebbe porre fine a tutta quella serie di azioni positive a vantaggio delle minoranze etniche, religiose, di genere, sessuali e culturali che esibiscono con orgoglio le loro diversità e chiedono aiuti e sovvenzioni: tali aiuti e sovvenzioni si traducono in un riconoscimento per esse, ma hanno anche l’effetto pratico di rafforzarle e renderle più diffuse nel paese. Ancora: le élite politiche (soprattutto) e le altre élite dovrebbero essere scelte nel seno della nazionalità anglo-protestante, della cultura anglo-protestante: si otterrebbe così quella rinazionalizzazione delle élite della quale Huntington dichiara il bisogno. Infine, con una azione mista di spinte ad assimilarsi e divieti di essere troppo vecchio-nazionali, con aiuti a tutto ciò che è anglo-protestante e scoraggiamenti a tutto ciò che non lo è, si dovrebbe raggiungere il risultato di rimettere la situazione in equilibrio, quell’equilibrio sempre instabile ma che pure ha funzionato con successo per qualche secolo.

Huntington ha ragione a porre il problema, anche se finisce per non centrare l’obiettivo. E’ vero quello che osserva sulla cittadinanza indebolita diffusa oggi negli Stati Uniti: un tempo assumere la cittadinanza americana era difficile e aveva un grande valore, oggi è più facile ottenerla ma essa vale poco. Ma la cittadinanza americana si è abbassata di valore perché molti estranei possono ottenerla facilmente o per una serie intricata di altri motivi (economici e di dislocazione del lavoro soprattutto)?

Huntington sottolinea il suo forte timore a proposito del cattolicesimo crescente: si tratta però di una costante nella storia americana. I protestanti anche di secoli fa hanno sempre percepito (giustamente) il cattolicesimo come la religione diversa dalla loro più diffusa nel paese: lo notava anche Tocqueville nel suo viaggio americano. Resta che il cattolicesimo non è mai diventato, in tutti questi anni, la prima religione praticata, e probabilmente sarà così anche in futuro. Gli ispanicos, infine. Certo, gli immigrati provenienti dall’America latina sono tanti, parlano spagnolo e non rinunciano ad alcune caratteristiche delle loro patrie di un tempo. Ma li si può definire in blocco come ispanicos per qualcosa più della lingua? Bisogna ricordare che il termine non è affatto preciso, ed è a geometria variabile: ad esempio, comprende i cileni, ma non i cubani, i caraibici o i guatemaltechi. Eppure parlano tutti spagnolo e sono nella stragrande maggioranza cattolici. E ancora: la religione ha una grande importanza anche civica in America, si sa. Ma perché porre come due categorie che debbono escludersi l’un l’altra quelle di identità religiosa e di identità civica? Perché non ammettere che un americano è l’una cosa e l’altra insieme? Perché non accettare (come il popolo americano ha fatto da sempre) che un cittadino americano possa avere origini, chessò, olandesi, e che la sua forte appartenenza alla nazione americana sia composta dagli hamburger, dall’abbondanza di merci, dalla democrazia, dalla competizione politica, da una fede religiosa e da ideali ideologico-politici? Non sarà con analisi e soluzioni come queste che si affronteranno con successo (ma a noi basterebbe la ragionevolezza) i problemi legati all’immigrazione.

Huntington scrive: “La cultura di base dell’America è stata, ed è ancora principalmente, la cultura dei coloni del XVII e XVIII secolo che fondarono la società americana. Gli elementi centrali di quella cultura si possono definire in svariati modi, ma includono la religione cristiana, i valori e il moralismo protestanti, l’etica del lavoro, la lingua inglese, le tradizioni britanniche di rispetto per la legge, per la giustizia e per i limiti del potere governativo, e una tradizione legata all’arte, alla letteratuta, alla filosofia e alla musica europea.” Ci sarebbe molto da eccepire, ma fermiamoci solo sull’ultimo punto: perché negare, e proprio da parte di un americano, che una cultura, una letteratura, una filosofia, una musica, un’arte americana esistano? Perché voler fermare a quella immagine passata – e lacunosa sul piano culturale – l’identità dell’America? Solo per ossequio a un principio, si rischia così di fare un torto grave al proprio paese.

Anche quest’opera, come le altre, ha lo stile inconfondibile del suo autore: enfatizza le differenze etniche fra le varie minoranze presenti in America, definisce le diverse micro-nazionalità come culture, le vede come minacciose dell’autentica cultura americana anche quando sono del tutto pacifiche e piuttosto ben integrate, esaspera alcuni aspetti del problema per sollevare la discussione pubblica, estremizza le sue posizioni per essere chiaro e farsi comprendere, è mosso dalla stizza nei confronti di chi non vede mai problemi da nessuna parte e crede che con la bontà d’animo e la buona volontà si possa risolvere tutto. Non sono in genere d’accordo con le tesi di Huntington, soprattutto con quelle propositive (come si sarà visto), ma quanto lo capisco! E’ per questo che la sua scomparsa è una perdita.
 
S.P. HUNTINGTON, La nuova America, trad. it. Milano, Garzanti, 2005, pp. 511, euro 19,50.