Il viaggio di Anne su e giù per la vita
01 Febbraio 2009
La morte dell’utopia è il leitmotiv di un viaggio. Ne Il canapé rosso della scrittice parigina Michèle Lesbre (già finalista al Premio Goncourt e vincitrice, nel 2007, del Premio Mac Orlan), il viaggio in questione è quello di Anne. Una donna non più giovane, alle prese con i rimorsi di coscienza e i fallimenti strutturali di un’impalcatura teoretica creduta inossidabile. Un pensiero comune, legato ad un’epoca che ha assistito al crollo delle proprie teorie. E proprio su queste “teorie” l’autrice ironizza, per bocca di Anne: “ci chiedevamo sino a che punto le avessimo prese sul serio”.
In Russia, e nello specifico a bordo della linea ferroviaria transiberiana, Anne dà sfogo alle più intime riflessioni. Dal viaggio alla ricerca di un amore perduto, Gyl, e di un miraggio capace di riportare in vita quell’energia ormai svanita, che rischia persino d’esser dimenticata, la protagonista non trarrà altro che un giudizio crudele sulla cecità dell’utopia.
Il tardivo tentativo di istituire un legame col mondo viaggiando si rivela così aleatorio. Le distanze fra il vissuto e il ricordo prendono il sopravvento. I racconti pomeridiani sul canapé rosso, in compagnia dell’anziana modista Clémence, pur nutrendo i ricordi della signora, non riescono a distoglierne lo sguardo dal reale. La Parigi dei ’40, la Resistenza, la sua adolescenza…
Ma il vero viaggio che Anne intende compiere, un ritorno sui propri passi, getta luce solo sul suo smarrimento, a chiusura di un percorso che ha tradito progetti e speranze.
Il viaggio si trasforma in un continuo rimando in cui il tempo si dilunga a dismisura, estendendosi verso l’infinito, “in quell’immensità in cui il desiderio di delimitare il proprio spazio, sia pure quello della morte, diviene insopprimibile.” Lo scopo è raggiunto. Le attese dissolte. E l’assenza della vecchia compagna lasciata a Parigi sollecita il ritorno. La vecchiaia attende. Dismessi i panni dei contadini delle radure Anne si accinge ad un rientro repentino. Affronta nuove questioni, misura il tormento dell’amore e la sua miseria. La solitudine della carne “che è già quasi una morte”. E il senso dell’invecchiamento, che tormenta ma solleva dall’impossibile compito di raggiungere l’equilibrio. Il senso della vecchiaia è forse una sospensione di giudizio? L’autrice non lo esclude ma nel finale un po’ attendista (sulla scia della frase del poeta Robert Walser “Amo la vita, ma la amo perché spero che mi dia l’occasione di gettarla via con dignità”), non si coglie altro che il desiderio umano, mai sopito, di voler a tutti i costi aver avuto un senso.
Michèle Lesbre, Il canapé rosso, Sellerio, traduzione di Roberta Ferrara, pp. 133, euro 11