Elogio ragionato e anche un po’ orgoglioso dei consumi
11 Gennaio 2009
Tempi duri per i consumi. Nonostante il tempo di feste e lo scambio dei regali sotto l’albero, come da tradizione, l’acquisto è nell’occhio del ciclone: uno stuolo di critici va sottoponendo da tempo l’atto dell’acquistare a una requisitoria spietata, prendendolo a simbolo e responsabile delle peggiori caratteristiche (vere o presunte) del nostro mondo: mercificazione di ogni rapporto pubblico e privato, dittatura del mercato, nihilismo, strumentalizzazione dell’essere umano, rovesciamento dei valori, materialismo, decadenza, fine della cultura. Uno degli esponenti maggiori e più tenaci in questo drappello è il sociologo di origini polacche Zygmunt Bauman: dopo aver dedicato nel 1989 un’opera, molto impietosa con la modernità, all’Olocausto e al suo rapporto con i principi che a suo parere reggono l’epoca moderna e definiscono il suo ethos, Bauman ha trascorso gli ultimi anni a produrre una serie fortunata di opere sulla bruttezza, l’insensatezza, l’irragionevolezza, la perfidia e la malattia (ma dimentico sicuramente qualcosa) del tempo in cui viviamo.
Come si caratterizza il nostro tempo per Bauman? La nostra epoca è definita epoca “liquida”, dove “liquida” è contrapposto, come ogni studente di chimica capisce, a “solida”. Solida è un’epoca dotata di fondamenti, coesa, comunitaria, con robuste caratteristiche sociali (ad esempio le classi, i ricchi, i poveri, l’influenza esercitata dalla società), nette differenze ideologiche, politiche differenziate a seconda che ci si collochi a destra o a sinistra, materialità delle cose, centralità del lavoro e dei produttori. E’ liquida, invece, quell’epoca che non ha fondamenti, non è coesa, non sa più neppure che cosa significhi essere autenticamente comunitari, ha caratteristiche sociali evanescenti, mobili, confuse, continuamente variabili e indefinite, nella quale non esistono più le classi, nella quale si distinguono i ricchi e i poveri ma su scala globale, nella quale la società non esiste più e dunque non esercita più alcuna influenza, nella quale le differenze ideologiche sono sfumate fino a scomparire, nella quale vigono la immaterialità di tutte le cose, la comunicazione in tempo reale, il più feroce individualismo, la scomparsa del lavoro, la centralità del consumo e dei consumatori.
Nella sua ultima fatica, Bauman scrive che sotto l’apparenza lieve e accattivante del consumismo si nasconde la illibertà più terribile dei nostri tempi. La scelta avviene sempre – afferma – all’interno di un numero di scelte strettamente limitato: abbiamo l’impressione di scegliere, mentre in realtà sono i consumi che scelgono noi. Lo aveva già detto in "Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi", Erikson, Gardolo (TN), 2007: consumare non è affatto un’operazione innocente. Attraverso scelte che avvengono sempre fra un numero limitato di alternative si realizza la nostra inclusione in quello che chiama il “branco” e che si potrebbe definire in termini meno apertamente dispregiativi come il gruppo del quale si desidera far parte. L’adesione alle mode incarna proprio, a suo parere, l’imperativo sociale di adeguarsi al gruppo, pena l’isolamento, senza che venga lasciato al consumatore neppure un briciolo di libertà: tutto è già preselezionato, prestabilito e prescritto.
In "Consumo, dunque sono" consumare significa per Bauman la trasformazione di ogni cosa, di ogni rapporto, e perfino di se stessi, in merce: una merce che deve essere nello stato migliore possibile per potersi vendere bene sul lavoro, negli affetti, nei ruoli sociali. Il consumo esprime al massimo la caratteristica della modernità in cui siamo: il fatto che è liquida. Solida era la modernità precedente, quella delle classi e del lavoro. Questa è invece frammentaria, mobile, vana. Quella rinviava il consumo, questa consuma subito, per cercare di essere soddisfatta immediatamente, si trova invece terribilmente delusa, consuma di nuovo per cercare di rimediare, e così via all’infinito. Bauman definisce questa condizione liquida, e l’ha vivisezionata in una serie ormai lunga di volumi che vertono sull’amore, la paura, la modernità, definiti tutti come liquidi. Liquido contro solido, dunque: ovvero postmoderno contro moderno.
Riesce difficile, tuttavia, pensare che un sociologo di così vasta fama non riesca ad afferrare l’altro aspetto presente nei consumi, nella società dei consumi, nel consumismo: l’aspetto per il quale consumare un bene, acquistarlo, portarlo a casa, condividerlo con i propri familiari o con gli amici, esibirlo e stufarsene per volgersi a un altro bene da desiderare, e poi acquistare, e poi esibire, e via di seguito, è un modo per avvicinarsi a mondi che non sono in prima battuta i propri, a universi di cultura, di significato, di geografia, di classe, di status, diversi dai propri. Comprare un cibo, un vestito, un soprammobile o l’arredamento del salotto, significa non solo ottemperare al comando che impone di spendere, poi di stufarsi, e quindi di spendere ancora; significa anche appropriarsi di esperienze, culture, senso, immaginare la propria vita in un modo inusuale. Significa avvicinare e fare propri mondi, stili, mode, passioni, svaghi, conoscenze, che sono in circolazione e che non ci appartengono. Una modalità, si dirà, elementare e non sofisticata, di accedere a mondi e vite lontani da noi, quella del consumo. Pazienza se la sua qualità non è alta: è ben più importante, per chi compie questa esperienza, avere la sensazione (che non è completamente illusoria) di aver fatto il proprio ingresso in un mondo più ricco, più vasto e al contempo più esclusivo. Un mondo dove si fa una vita che da lontano appare sempre desiderabile e felice, finché da vicino (quando è alla portata della nostra personale esperienza) si rivela magari deludente: è per questo che il meccanismo più potente nel mondo dei consumi è quello che alterna desiderio e delusione in un avvicendarsi ciclico e senza fine. Ma non importa: il risultato indubbiamente positivo è che coloro che fino a quel momento erano esclusi da quei mondi di esperienza hanno avuto la sensazione (solo in parte, ripeto, illusoria) di farne parte. Così si sono comportate tutte le società dei consumi che si sono avvicendate nella storia vicina e lontana: hanno messo in contatto possibili acquirenti fino a quel momento esclusi con esperienze inedite, e l’hanno fatto attraverso l’acquisto di beni o di servizi.
La descrizione dell’età solida del capitalismo in Bauman è di maniera quando non decisamente immaginaria, creata appositamente per far risaltare la differenza con l’età liquida. Quando, sempre a proposito dei consumi, definisce la prima come epoca del rinvio della soddisfazione e la seconda come epoca della soddisfazione immediata (che tuttavia non soddisfa), oppure quando afferma che la prima consumava per una “promessa di sicurezza a lungo termine” e la seconda per il godimento, tanto che la prima investiva in oggetti solidi (metalli nobili, gioielli, custoditi in solide casseforti d’acciaio) mentre la seconda investe in oggetti poco o per niente solidi, viene il dubbio che il gusto della teoria fantasiosa gli abbia preso la mano: il mercato dei metalli nobili e dei gioielli, così come l’uso di custodirli in cassaforti d’acciaio o in cassette di sicurezza, sembra esistere anche oggi ed essere parecchio diffuso. Ancora. Lo stile di vita liquido è fatto di “ingordigia indiscriminata e onnivora: una forma radicale ed estrema di strategia esistenziale da ultima spiaggia che scommette su più tavoli, in un contesto di vita contraddistinto dalla ‘puntinizzazione’ del tempo e dall’assenza di criteri affidabili per separare il messaggio dal rumore, ciò che è rilevante da ciò che non lo è.” Di contro, l’epoca solida era parca, coscienziosa, immobile, silenziosa, inserita in un tempo continuo e su fondamenta durevoli. Qui l’illusione ottica si diverte a giocare con l’essere e il divenire, come i filosofi fanno spesso. In molti si sono soffermati sul tempo postmoderno, frammentato e discontinuo, sulla mancanza di orizzonte storico dell’uomo contemporaneo: la tesi di Bauman del tempo puntinizzato (cioè spezzettato in frammenti piccolissimi) non è nuova, ma è in linea con le altre, da Koselleck a Lyotard. Affermare però che a causa di questo la nostra vita in epoca liquida è frettolosa assomiglia più a una chiacchiera da bar che a una analisi epocale.
Bauman afferma, come si è visto, che nella decisione di consumare questo o quel bene non c’è affatto all’opera una nostra scelta di opportunità, ma una fortissima necessità che ci obbliga a fare senza scampo ciò che dobbiamo. Mi ha sempre colpito la contraddizione implicita nel discorso di chi ci si rivolge svelando che non siamo liberi ma necessitati: se davvero siamo tutti costretti e dominati totalmente dalla società in cui viviamo, in che modo chi scrive può aver compreso il meccanismo nascosto sulla base del quale essa funziona? E come pensa che noialtri, obbligati allo stesso suo modo, possiamo comprenderlo? L’alternativa è che non siamo obbligati affatto, o non lo siamo nella misura che egli afferma. E’ presente nei ragionamenti di questo tipo una pretesa assurda: quella di formare, lo scrittore insieme ai suoi lettori ideali o reali, l’unica eccezione a un mondo in cui regna non la libertà, ma la necessità più implacabile. Ma resta sempre oscuro e non spiegato da dove provenga la loro libertà.
Sui consumi però oggi non abbiamo solo questo tipo di voce critica: esiste anche quel filone che da tempo si dedica con perseveranza alla tematica del dono. Due dei più noti esponenti sono Alain Caillé e Serge Latouche, ma non pochi intellettuali italiani sono stati illuminati. Il dono nel senso del regalo natalizio con cui si apre questa recensione?, si chiederà qualcuno. Niente affatto, anzi: esattamente il contrario. Mi spiego: questo filone, sempre critico della modernità nel suo aspetto di mercificazione e scambio, materialismo e reificazione, vorrebbe eliminare il mercato, l’individuo, il lavoro considerato alla stregua di una merce dal mondo in cui viviamo, e mettere al suo posto la gratuità, la comunità (o il collettivo, o il gruppo, a seconda dei casi), il lavoro considerato nel suo pieno valore non monetizzabile, e al posto del mercato quale luogo degli scambi il rapporto faccia a faccia, la spontaneità, la prestazione volontaria. Solo in questo modo la modernità riuscirebbe a mondarsi dai suoi peccati, riassumibili nello scambio di merci e denaro, nella riduzione a calcolabile di tutto ciò che esiste (esseri umani inclusi), nell’individualismo più selvaggio e spietato. Alla modernità materialista che crea sacche di povertà ai suoi margini come fenomeno normale dovrebbe essere sostituito il mondo del dono: come in alcune società primitive (dalle quali è stata presa l’idea), il dono dovrebbe sostituire lo scambio, il gratuito sostituire il dotato di valore di mercato, il contatto simpatetico sostituire il mercato, la comunità prendere il posto dell’atomismo sociale.
Inutile osservare che una modernità alla quale fossero sottratte queste caratteristiche non sarebbe più modernità. Inutile obiettare che esperimenti di scambio di beni non mercificati sono possibili (e ancora!) solo su piccola, piccolissima scala (la banca del tempo ne è un esempio, che non ha avuto peraltro molto successo neppure su piccolissima scala). Inutile evidenziare le tracce di antimodernismo presenti in questo sogno. Inutile sottolineare i tratti di sogno, appunto, presenti in questa critica e in progetti di questo tipo. Per chi ci crede, si tratta di un attacco feroce e temibile alla società del denaro e delle disuguaglianze, una mossa per sparigliare le fila di coloro che sono supini allo scambio, al mercato, all’individuo, per annientare tutto questo con la forza dell’esempio. Le origini dei seguaci del dono e quelle di Bauman sono diverse, i loro riferimenti non vanno agli stessi autori classici, e anche la contro-società immaginata ha sembianze diverse per gli uni e per l’altro. Tuttavia, non si può mancare di notare la convergenza dei due nelle identiche picconate inferte ai consumi, al sistema che si basa su di essi (la società dei consumi), allo stile di vita che ne deriva (il consumismo), al valore materiale e simbolico che i consumi possiedono.
Non nego affatto che vi sia un atteggiamento patologico che sfocia nel consumismo ossessivo e compulsivo: ma ogni fenomeno ha la sua patologia, anche i migliori. Né è mia intenzione incitare chi legge all’acquisto o giustificare coloro che vivono esibendo e cercano soddisfazione nei centri commerciali. Solo, resto convinta di una cosa: può permettersi di disprezzare i consumi solo chi ha la possibilità di farli.
Z. BAUMAN, Consumo dunque sono, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 199, euro 15.