Israele si prepara all’election day più incerto e controverso della storia
09 Febbraio 2009
Gerusalemme. Anche l’effetto del previsto uragano meteorologico che si abbatterà domani su Israele, nell’ “Election day” più incerto della storia del Paese, è controverso. C’è chi è pronto a scommettere che aiuterà Avigdor Lieberman perché i suoi seguaci arrabbiati andrebbero alle urne anche con gli ombrelli spezzati dal vento; e c’è chi sostiene al contrario che aiuterà Tzippi Livni, perché terrà lontani dalle spiagge di Tel Aviv i giovani senza troppa passione politica – ma tendenzialmente di sinistra – che vedono nell’erede di Ariel Sharon l’unico baluardo alla vittoria della destra.
L’apatia è il tratto distintivo di questa campagna elettorale. Bibi Netanyahu, il favorito, venerdì si è spinto fino a Beit Arie, un insediamento in Cisgiordania, che si trova sulla rotta dell’unico volo giornaliero che collega Amman a Tel Aviv e ha tuonato contro Kadima, il partito della Livni, che proseguendo nella strada tracciata da Sharon, è pronto a cedere ai palestinesi “avamposti come questo che verrebbero trasformati dall’Iran e da Hamas in piattaforme per porre sotto tiro l’aeroporto internazionale Ben Gurion”. Un discorso concepito per sedurre gli abitanti dell’insediamento, che si trova al di là della barriera costruita da Israele, e dunque tra quelli da evacuare in caso di accordo con i palestinesi. Invece, ad ascoltare Netanyahu c’era solo una selva di telecamere e poche decine di teenager, uno con berretto di Che Guevara e t-shirt del Likud, incomprensibile sincretismo mediorientale.
Tzippi Livni, nel suo sforzo di mobilitare l’elettorato giovanile, ha rinunciato ai suoi eleganti tailleur pantalone , ha indossato i jeans e è entrata nel club Haoman 17 di Tel Aviv – i maligni sostengono per la prima volta in vita sua. Qui ha tentato senza troppo convincere di muoversi a ritmo di musica, poi si ha parlato nello spazio riservato al dj presentandosi come la speranza in un futuro di pace e sicurezza.
Ehud Barak ha alternato i tradizionali comizi nelle roccaforti storiche dei laburisti ai briefing con i generali sulla incandescente situazione nella striscia di Gaza. La guerra non ha posto fine al lancio di razzi e il ministro della Difesa ha visto infrangersi sugli scogli di Hamas i consensi accumulati durante i 22 giorni di conflitto.
A raccogliere la frustrazione del Paese, a dar voce alla sindrome da accerchiamento che pervade l’opinione pubblica, è stato Avigdor Lieberman. La sua campagna elettorale era partita in tono minore, fino a quando i sondaggi hanno segnalato la sua irresistibile ascesa. Da allora, non si è parlato che di lui, in Israele e fuori, del suo passato da immigrante russo, ex buttafuori in una discoteca di seconda categoria e facchino all’aeroporto di Tel Aviv e del suo presente inaspettato, leader di un partito, Israel Beiteinu, che è accreditato del terzo posto, davanti quindi ai laburisti, una posizione che ne farebbe l’ago della bilancia di qualsiasi futura coalizione di governo. “Senza fedeltà, niente cittadinanza” lo slogan della campagna.
Lieberman ha battuto in lungo e in largo le città israeliane a popolazione mista. In un sobborgo povero di Haifa, mille persone gremiscono la hall di un centro commerciale. I giovani volontari sventolano con orgoglio la bandiera israeliana. I palloncini sono bianchi e azzurri, i colori nazionali. La platea si scalda quando dagli altoparlanti escono le note della canone “Non abbiamo un’altra nazione”. Lieberman non parla del futuro dei Territori palestinesi né di Gerusalemme. Attacca invece la leadership degli arabi israeliani, che negli ultimi anni si è radicalizzata, fino a schierarsi apertamente con Hetzbollah e Hamas. Giocano a suo favore bandiere verdi che durante la guerra a Gaza sono state portate in corteo ad Haifa, ad Akko. Lieberman respinge l’etichetta di razzista che i nemici interni ed esterni gli affibbiano. Sostiene che vuole trasformare Israele in un paese normale, dove i cittadini hanno il dovere della fedeltà, e non possono schierarsi col nemico. In platea, molti indossano le cuffia della traduzione simultanea, dall’ebraico al russo. Gli immigrati dall’ex Urss sono la sua base elettorale. Hanno vissuto sotto il regime comunista e dal 92 in Israele costituiscono un blocco il cui cuore batte per la destra forte, che batte i pugni sul tavolo, nel 2001 votarono per Ariel Sharon, oggi per Avigdor Lieberman.
E il processo di pace? Dove condurrà la strada aperta ad Annapolis? Che chance di successo ha il piano saudita che tanto entusiasma il presidente Usa Obama? Israele sembra in procinto di virare a destra. E anche se Tzippi Livni ce la dovesse fare, sarebbe costretta a trattare con Netanyahu e Lieberman: il blocco di centro sinistra non supera la soglia del 45%. Shlomo Avineri, docente del dipartimento di Scienze politiche della Hebrew University, scuote le spalle: “Il mondo si è mai chiesto perché anche durante il governo Olmert, un premier disposto a concessioni territoriali senza precedenti, un’intesa non è stata raggiunta? La risposta è che le differenze tra israeliani e palestinesi rimangono grandi. L’Autorità palestinese non ha il controllo sulla Striscia di Gaza. La pace dall’alto è fallita. L’unica strada è quella di costruirla dal basso. Tony Blair, inviato del Quartetto, l’ha capito. Guardate come è cambiata, anche grazie al suo contributo, la realtà di Jenin. Lì si registra una convergenza di interessi tra businessman israeliani e palestinesi per lo sviluppo economico. Il futuro governo israeliano dovrà occuparsi prima di tutto della stabilizzazione di Gaza: ricostruire la Striscia senza ricostruire Hamas. Non credo che potrà raggiungere un’intesa di pace. Chiunque sia il vincitore”.