Parodia infantile ma non troppo del totalitarismo

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Parodia infantile ma non troppo del totalitarismo

26 Aprile 2009

Esordio italiano del trentenne Gyorgy Dragoman, rumeno di origine ungherese, “Il re bianco” affronta incongruenze e crudeltà  in un paese che assomiglia alla Romania ai tempi di Ceauşescu. È un romanzo a episodi, raccontati con l’infantile tenerezza e le ingenuità di un bambino di poco più di dieci anni.

Dszata è figlio di una donna ebrea e di un padre dissidente, costretto alla deportazione e condannato ai lavori forzati nel Canale del Danubio; ma questo il pargoletto non può saperlo. Così, quando il genitore sarà arrestato, lo saluterà appena, sperando di incontrarlo di nuovo il prima possibile. Il piccino è però anche nipote di un “compagno”, il rispettabilissimo ex segretario del partito comunista, costretto alla pensione a causa dell’azione rivoluzionaria del suo unico figlio. Da quel contrasto tra un padre libertario e uno zio fedele ai dettami della disciplina di partito, e dal rapporto con i compagni di scuola violenti e immorali, il giovanissimo protagonista tirerà fuori, con estrema semplicità, l’affresco di un paese alla deriva, brutale e disciplinato, in preda alla confusione morale e schiavo della paranoia militarista.

Il côté familiare, poi, non lo aiuta di certo. Ne è un esempio il tentativo di corruzione della madre da parte di un vecchio ambasciatore del partito, che agli occhi ingenui del bambino non può avere i contorni definiti di quello scandalo morale che tuttavia è percepito nella sua sottile e implacabile violenza. Dszata sembra dunque avere le mani legate da un destino che da subito gli ha voltato le spalle: non è in grado di alterare le sorti del gioco che ha incastrato il padre e tuttavia non può nemmeno aiutare la madre ribelle che lo ha cresciuto. Sperimenta così una dimensione autonoma e isolata dal resto della società, munendosi peraltro di un amuleto: “il re bianco”, appunto, sottratto alla scacchiera dell’ambasciatore.

Con un linguaggio semplice e diretto che si concede facilmente all’ironia, Gyorgy Dragoman inscena una parodia del totalitarismo da un’ottica inconsueta e genuina qual è quella dell’infanzia. In questo modo, può permettersi di trattare senza enfasi una materia scabrosa, e di farlo quasi per metafora, trascendendo i singoli eventi. Ogni episodio cela contrasti e disagi più profondi di quelli che può percepire il protagonista, ma dai suoi racconti si delineano i contorni di una storia amara e vera, capace di fare accapponare la pelle se la si legge con la maturità smaliziata di un adulto.