Afghanistan, per gli Italiani dietro ogni sasso può esserci una bomba
21 Luglio 2009
Un cumulo di sassi, un segno fatto con la vernice sul muro, un’auto ferma o anche un carretto abbandonato sul bordo della strada: lì potrebbe nascondersi un IED, un ordigno esplosivo artigianale destinato a un convoglio in movimento, lo strumento di offensiva preferito dagli insorgenti in Afghanistan. Soprattutto nelle zone Ovest e Sud, dove in questo momento è più calda la situazione.
“I ponti, i culvert, i cunicoli scavati sotto la strada per il deflusso delle acque, le strade sterrate, i tornanti, sono tutti punti sensibili perché privilegiati dagli insurgents per il posizionamento di ordigni esplosivi”. A raccontarlo, con tono colloquiale ma sicuro, di chi conosce molto bene il proprio mestiere, è il maggiore Fabio Consiglio, capo branca Genio del Comando Regionale Ovest, la zona sotto responsabilità italiana pari a un quarto di tutto l’Afghanistan. Romano, 47 anni, è alla sua ottava missione all’estero. La seconda in Afghanistan. Comanda la branca che si occupa, oltre che della costruzione di infrastrutture destinate ai militari, anche di esplosivi, appunto, e della situazione della mobilità sul terreno.
“Ogni uscita dalla base – spiega il magg. Consiglio – è attentamente pianificata su carta. E i ragazzi sono addestrati su quelli che noi chiamiamo ‘vulneral point’ o ‘vulneral area’. Abbiamo un database continuamente aggiornato negli anni sui punti sensibili dove in passato ci sono state esplosioni e attentati, quando e con quali tecniche sono stati realizzati. Su questi dati formuliamo i warning e le raccomandazioni su come devono comportarsi una volta varcato il gate”.
Quando un convoglio è in movimento, in testa c’è sempre un’unità del Genio addestrata a riconoscere i segnali di punto critico. “Se l’osservatore sul primo mezzo – prosegue il maggiore – si accorge che c’è qualcosa di strano, ferma il convoglio. Se si è troppo vicini al ‘segnale’, si indietreggia per creare una distanza di sicurezza”.
In questo caso si scende dal mezzo e ci si avvicina a piedi. Con la massima cautela. E si osserva, si cercano con lo sguardo tutti quegli indizi che possano confermare i sospetti. Un cavo elettrico che sbuca dal terreno, ad esempio. “Se, come sospettato, si trova l’ordigno, viene subito richiesto l’intervento del team IEDD. Se ci sono le condizioni, e solo dopo aver garantito la sicurezza nelle vicinanze, viene fatto brillare”.
Occhi aperti, quindi, sempre. E attenzione al massimo perché i segnali possono essere di ogni genere. Non esistono manuali esaurienti sul tema, conta l’esperienza, l’unico elemento in grado di sviluppare una certa sensibilità. “Anche un pezzo di asfalto di un colore diverso è un segnale, perché potrebbe essere stato rimosso per posizionarci qualcosa sotto. Qui lo strato d’asfalto sulle strade è molto sottile. Gli insurgents usano il gasolio per scioglierlo, scavano, posizionano l’ordigno e richiudono”.
Tenere lo sguardo fisso sul ciglio della strada, tuttavia, non basta. “Bisogna stare attenti anche a tutto ciò che succede intorno al mezzo in movimento: il conducente di un motorino che si ferma e fa una telefonata al cellulare subito dopo il nostro passaggio, per esempio, potrebbe essere un informatore che avverte del passaggio di un nostro convoglio. O un’auto che si accosta ai nostri mezzi in movimento o che ci precede e rallenta giusto prima del nostro arrivo. Anche quello potrebbe essere il segnale di un attacco”. Capita, anche se la gente del posto è avvertita e sa che deve accuratamente evitare comportamenti che possono essere “sospetti”.
Gli attacchi IED avvengono soprattutto fuori dai centri abitati. Come sulla 517, 80 km di strada asfaltata che collega Farah, la provincia più a sud della zona di responsabilità italiana, con la Ring Road, l’anello di asfalto che circonda tutto l’Afghanistan. Quella su cui, il 14 luglio scorso, proprio in seguito a un attacco IED, ha perso la vita il primo caporalmaggiore Alessandro Di Lisio. “È una strada importante. Prima di tutto perché nella zona è l’unica asfaltata e poi perché da lì passano parecchi dei nostri convogli. Nel punto in cui è avvenuto l’attacco del 14 luglio scorso la strada è ricoperta di terriccio, quindi è stato semplice nascondere l’ordigno e renderlo invisibile”.
Alessandro apparteneva all’8° Reggimento Genio Guastatori di Legnago. Era un artificiere. Ecco perché, quella mattina, viaggiava sul primo mezzo del convoglio, quello colpito dall’esplosione. Una dinamica non “convenzionale”, in realtà. “Generalmente non viene mai colpito il primo mezzo, ma il terzo, il quarto, addirittura il quinto. Quando gli insorgenti posizionano un ordigno rimangono nei paraggi, a distanza di sicurezza. E non azionano l’innesco radiocomandato al passaggio del primo mezzo. Aspettano per essere sicuri di colpire. Ecco perché anche due alberi molto vicini tra loro possono essere un punto sensibile: perché possono essere usati per prendere bene la mira”.
Il 14 luglio, invece, non esisteva un innesco radiocomandato. L’esplosivo che ha causato il ribaltamento del mezzo su cui viaggiava Di Lisio era posto sotto la superficie della strada, a pochi centimetri di profondità. Al passaggio del mezzo è esploso.
Ma gli insorgenti non restano nei paraggi solo per innescare l’esplosivo. “Si accertano dell’esito dell’attacco. E lo filmano. Per studiarci, studiare le nostre reazioni, i nostri mezzi, come ci comportiamo. E affinare, così, le tecniche”. Non è solo una supposizione quella della videoregistrazione degli attacchi. Il maggiore Consiglio racconta di clip che girano su internet contenenti filmati di attacchi. Raccolti per “studiare il nemico” e, all’occasione, diffusi per fare propaganda.
Un metodo evidentemente efficace perché, come notato dal maggiore “gli insorgenti stanno affinando sempre più le loro tecniche. Ormai non si tratta più di semplici ordigni rudimentali, nascosti alla meno peggio e, quindi, facilmente individuabili”. Uno degli ultimi sistemi osservati è quello di posizionare il piatto di pressione più in profondità nel terreno e di conficcare in corrispondenza dell’ordigno un bastone: quando il mezzo passa e schiaccia il bastone, la pressione si trasmette direttamente al piatto ed esplode. Ultimamente, poi, sono stati ritrovati IED destinati non solo ai mezzi, ma anche alle persone: per l’azionamento, infatti, non è necessaria una pressione di 100/150 chili, basta quella esercitata dal peso di una persona.
La frequenza dei ritrovamenti è di circa 3 o 4 ordigni a settimana. Una stima che il magg. Consiglio riesce a fare con difficoltà “perché negli ultimi tempi la situazione si è aggravata, con un’impennata nel numero dei ritrovamenti. Non si può dire tuttavia se sia per un aumento di aggressività degli insorgenti o perché noi, dato l’intensificarsi delle nostre attività e l’aumento delle presenze in vista delle elezioni, usciamo e ci muoviamo di più sul terreno. E, ovviamente, più ci si muove, più si trova”. Difficile, comunque, scindere i due elementi. “Ovviamente – conclude il magg. Fabio Consiglio – più siamo sul terreno più interferiamo con le loro attività. Più interferiamo con le loro attività più gli insorgenti reagiscono. E questa è la forma di reazione che conoscono meglio”.