La Russia cerca ancora di capire perché è crollato il Muro di Berlino
06 Novembre 2009
9 novembre 1989, il crollo del muro di Berlino si scolpisce nella storia dell’Occidente. Ma non per la Russia. Quella data non è stata decisiva per la sorte del regime sovietico e ancora oggi il dibattito intellettuale in Russia non affronta la questione del muro di Berlino.
Per quanto dettagliate, nelle ricostruzioni degli eventi che condussero all’abbattimento del Muro di Berlino l’Unione Sovietica non viene menzionata quasi mai. Eppure la decisione di erigere il Muro venne proprio da Mosca. Era il primo agosto del 1961 quando Khrushchev comunicò il progetto del Muro a Walter Ulbricht, all’epoca leader della Repubblica Democratica Tedesca. Il 19 agosto 1961, appena sei giorni dopo l’inizio dei lavori di costruzione del Muro, il presidente americano Kennedy inviò a Berlino Ovest una colonna di 1.500 militari americani che avevano lasciato la Germania federale per attraversare il territorio della Germania democratica, costantemente monitorati da “vopos” tedeschi e unità speciali sovietiche. Sembrava che il Muro, oltre a dividere le due metà di Berlino, fosse sul punto di contrapporre militarmente anche le due metà geopolitiche del pianeta.
La codificazione ideologica dell’interventismo sovietico fu sancita dalla cosiddetta dottrina Brezhnev. Rivolto al congresso del Partito Unito dei Lavoratori Polacchi, Brezhnev sostenne che “quando forze ostili al socialismo tentano di deviare lo sviluppo di paesi socialisti in direzione del capitalismo, questo diventa un problema per tutti i paesi socialisti”. Era il 13 novembre 1968, l’anno dell’invasione di Praga. La dottrina Brezhnev venne addirittura estesa al di fuori del patto di Varsavia nel 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Solo un decennio più tardi, questo ferreo dogma della politica estera sovietica venne clamorosamente smentito proprio a Berlino. La perentoria dottrina Brezhnev fu sconfessata da una meno altisonante dottrina, quella “Sinatra”. Sulla scia delle parole della canzone “My Way”, il portavoce del ministero degli esteri russo, Gennady Gerasimov, dichiarò il 25 ottobre del 1989 al programma televisivo “Good Morning America” che “ogni Paese decide quale via seguire”. Dai grandi congressi orientali al piccolo schermo occidentale: in meno di dieci anni Mosca aveva capovolto i suoi rapporti con l’Europa Orientale, passando dall’intervento armato al disimpegno.
Il muro di Berlino era ormai troppo lontano per Mosca. Tra il 1989 e il 1991 l’Urss attraversa il biennio più complesso della sua storia, al termine del quale la stessa Unione Sovietica non sarebbe più esistita. Il 1989 è l’anno in cui, a febbraio, Mosca si ritira sconfitta dall’Afghanistan dopo che l’Armata Rossa è finita sotto scacco della guerriglia dei mujahideen. L’addio a Kabul produce una cicatrice sulla coscienza russa, dove nasce addirittura un filone cinematografico per commemorare l’eroismo dei suoi soldati in Afghanistan – l’ultima pellicola è un grande successo del 2005: “La Nona Compagnia” che ha persino strappato l’applauso di Putin. Sempre a febbraio del 1989 nei paesi baltici esplode il nazionalismo indipendentista che Mosca proverà, senza successo, a sedare con la violenza.
Presto anche la Georgia e altre repubbliche caucasiche verranno travolte dal nazionalismo che a sua volta scatenerà guerre etniche su scala locale. E’ lì che si apre la piaga della Cecenia. Sul versante interno il regime sovietico subisce il colpo di grazia il 26 marzo 1989, la data delle prime elezioni multipartitiche nella storia dell’Urss e dalla Russia stessa. Boris Eltsin è il trionfatore. Gorbachev inizia il suo inarrestabile declino. E’ una metamorfosi politica e istituzionale dirompente per la realtà e l’identità russa. E poi la tragedia di Chernobyl, la liberazione di Sakharov e altri dissidenti, la condanna dello stalinismo, le purghe contro i dirigenti più ortodossi del Pcus e le riforme strutturali nelle istituzioni: nel 1989, prima del muro di Berlino, era già crollato il muro dell’Urss.
E’ molto difficile trovare un punto di vista russo sulla fine del muro di Berlino. Le energie erano già concentrate su un epocale passaggio della Russia dal regime sovietico – rivoluzione, trasformazione, transizione? Sono queste le parole chiave intorno a cui si sviluppa un dibattito proiettato alla ricerca dell’assestamento, della stabilizzazione, dell’istituzionalizzazione di questo passaggio così violento. Ecco perché la nostalgia per l’epoca comunista, così florida proprio nel mondo culturale di Berlino e dell’ex Germania democratica, è invece assente a Mosca. Nel 2006 è uscito il film del regista russo Yulii Gusman: “Park sovetskogo perioda” (il parco del periodo sovietico). La trama è intuitiva: sulla falsariga di “Jurassic Park”, nei pressi di Mosca viene ricostruito un parco divertimenti con le icone viventi della storia sovietica – una specie di remake russo di “Goodbye Lenin”.
Quest’ultimo è diventato un “cult-movie”, mentre il primo è stato un fiasco, nonostante fosse un compendio dell’intera parabola storica dell’Urss. Ormai l’identità sovietica ha rimosso i suoi legami con l’Europa Orientale. Nella zone dell’ex Berlino Est resiste la “Russen Disko”, la discoteca russa, gestita da Vladimir Kaminer, russo naturalizzato tedesco, che con estrosità e ironia dipinge ritratti musicali e narrativi della Berlino sotto occupazione sovietica. Ma anche qui i russi non riescono ad identificarsi col loro passato, considerando tutto questo un’attrazione per turisti stranieri.
Paradossalmente sono i tedeschi affetti dalla “Ostalgie”, la nostalgia dell’Est comunista, a ricercare il legame con l’Urss, e non viceversa. La Germania riunificata e l’Europa si sono rapidamente integrate. La Russia non ha superato la sua instabilità. Dopo vent’anni di esperimenti, dal riformismo di Eltsin al turbo-capitalismo degli oligarchi e al regime di Putin fino alla crisi con Medvedev, la Russia cerca ancora di capire verso quale orizzonte si sta muovendo.