Il progetto post-americano di Obama mette nei guai la Difesa degli Usa

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Il progetto post-americano di Obama mette nei guai la Difesa degli Usa

21 Gennaio 2010

Sono tre i temi che si profilano all’orizzonte nei prossimi anni della presidenza, sui quali Obama potrà far valere le principali caratteristiche della sua visione del mondo. Il primo è, quasi sicuramente, la riduzione dell’arsenale Usa, da ottenersi attraverso decisioni di budget e accordi di riduzione degli armamenti, sia bilaterali con la Russia che multilaterali con il coinvolgimento di altri paesi. In un periodo di crescita sostenuta della spesa, solo il bilancio della Difesa viene limitato.

Mentre lo stimolo economico è in pieno sviluppo, Obama ha rifiutato un allargamento della struttura militare, ha deciso contro un aumento degli stanziamenti volti a ripianare le perdite materiali sofferte in Afghanistan e in Iraq e ha bloccato lo sviluppo di fondamentali sistema d’arma d’ultima generazione. Queste spese (e altre) assumerebbero un ruolo centrale per essere in grado di esercitare, in futuro, una politica di potenza, e darebbero luogo a risultati concreti e a più vaste possibilità politiche; al contrario del patetico programma “shovel-ready” garantito dall’attuale stimolo (shovel ready: dicesi di progetti di realizzazione immediata, ndt). Questa differenza non è casuale.

Ancora peggio, sia il discorso di Obama a Praga circa un mondo libero dalle armi atomiche, sia la prima “U.S. Nuclear Posture Review” (revisione dell’arsenale atomico, ndt) dal 2001, pesantemente condizionata dalla Casa Bianca, indicano la via verso un disarmo nucleare unilaterale degli Stati Uniti, a prescindere dall’esito dei negoziati. Il presidente crede fermamente, non esistendo un’evidenza in contrario, che abbassare la capacità nucleare a un livello vicino allo zero indurrà coloro che ambiscono a dotarsi di armi atomiche – Iran e Corea del Nord ne prendano nota – a rinunciare ai loro programmi. E’ questo ciò che Obama intende per “rafforzare” il regime stabilito dal Trattato di non proliferazione nucleare, e che Gordon Brown ha già proposto rinunciando a uno dei quattro sottomarini nucleari britannici.

In diverse occasioni, nel 2009, Obama e il presidente Medvedev hanno annunciato accordi circa futuri, consistenti tagli negli arsenali nucleari delle due nazioni, e nei sistemi strategici collegati. Obama ha già ridotto unilateralmente gli sforzi Usa nel campo della difesa missilistica, e ci sono tutti i segnali di un ritorno a un nuova versione del trattato anti-missili balistici. I russi, naturalmente, sono ben lieti di aderire, perché anche se il prezzo del petrolio riprendesse a salire freneticamente, non sarebbero comunque in grado di mantenere la loro capacità nucleare a un livello neanche vicino a quella statunitense. In effetti, un livello “uguale” è uno svantaggio severo e sproporzionato per gli Usa, a causa del nostro obbligo di fornire un ombrello atomico alla Nato, al Giappone e agli altri alleati. La Russia non ha alcun impegno paragonabile.

A livello globale Obama è stato ancor più estremista, illuminandoci circa i suoi obiettivi con la Risoluzione di sicurezza 1887 (addirittura, presiedendo il consiglio che l’ha approvata) e convocando un summit sulla “sicurezza nucleare” nel 2010. Obama ha promesso la ratificazione da parte degli Stati Uniti del Comprehensive Test Ban Treaty (il trattato che proibisce i test nucleari, che venne bocciato dal Senato nel 1999). Si è impegnato a riaprire i negoziati di un trattato per la limitazione della produzione di materiale fissile, e di un altro trattato contro la militarizzazione dello spazio. Inoltre sostiene la creazione e il rafforzamento di zone cosiddette denuclearizzate in tutto il mondo, e ha lanciato un appello a quegli stati non ancora aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare affinché si uniscano ad esso come paesi non detentori di armi atomiche, con ciò intendendo che Israele, Pakistan e India dovrebbero abbandonare le loro armi nucleari (il che non avverrà mai). Infine, il segretario di Stato Clinton ha promesso un coinvolgimento attivo degli Stati Uniti nel preparare un trattato che regoli il commercio di armi convenzionali, che è un modo appena dissimulato di arrivare a un controllo del mercato di armi nazionale, che sarebbe arduo modificare attraverso un normale processo legislativo.

Tutti questi obiettivi incontreranno una fiera opposizione nel paese, al Senato e altrove. Ma non ci si facciano idee sbagliate: Obama sa dove vuole arrivare, e sta lavorando per arrivarci.

La seconda priorità politica, per Obama, è un accordo internazionale sul riscaldamento globale. Non è questa la sede per dibattere il merito della questione, sulla quale va però detto che gli Autentici Credenti trovano ben poco attraente qualunque soluzione che non sia statalista, e che non preveda un rigido controllo a livello globale. Gli sforzi di Obama rimodellerebbero gli Stati Uniti in modo più conforme a questa filosofia.

La realtà politica potrebbe avere affossato la possibilità di arrivare a un trattato che rimpiazzi Kyoto in tempi brevi, ma questo contrattempo non ha scalfito l’entusiasmo multilaterale di Obama. Gli ambientalisti hanno attribuito la colpa di un tale insuccesso soprattutto agli Stati Uniti, il cui Congresso non è stato in grado, nel primo anno di Obamamania, di licenziare una legge sul cap-and-trade (limitazione delle emissione di CO2, con eventuale compravendita delle quantità di anidride carbonica consentite – ndt). La probabile reazione di Obama sarà quella di muoversi con maggior decisione nei negoziati multilaterali per arrivare a un successore di Kyoto, nonostante l’inerzia del Congresso. Così facendo, Obama seguirà una strategia ormai familiare da parte degli americani di sinistra: quella di internazionalizzare i problemi che non riescono a risolvere nel paese. Negli anni passati ci hanno provato molte volte, ottenendo più o meno successo, per una miriade di questioni: tra esse il controllo delle armi, la pena di morte, l’aborto, i “diritti del bambino”.

La strategia è quella di raggiungere una comunità di vedute con i leader di orientamento similare, i cui governi spesso sono ben più a sinistra del centro di gravità politico americano. Dopo di che, con un trattato o qualche altro accordo internazionale in mano, gli attivisti ritornano in Senato per annunciare che il resto del mondo è deciso a fare la “X” cosa e che l’America non può permettersi di restare “isolata” assieme a Somalia, Birmania, Cina e altri vari partner più o meno impresentabili. Sul riscaldamento globale, Obama presumibilmente tenterà di raggiungere i suoi obiettivi tramite un approccio internazionale al problema, magari utilizzando accordi tra governi piuttosto che trattati per scavalcare il Senato e altri eventuali ostacoli politici in casa. Analogamente, moltiplicherà gli sforzi per ratificare la Law of the Sea Treaty, caldeggiata dagli ecologisti, che vedono in essa uno strumento per inasprire la regolamentazione ambientale.

Terzo – fattore propedeutico ai due precedenti imperativi in politica estera – la “global governance” (autorità globale) e la “international law” (legislazione internazionale) raggiungeranno piena maturazione con Obama. Di fronte al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Obama ha detto: “Il mondo deve restare unito. E dobbiamo dimostrare che le leggi internazionali non sono una vuota promessa, e che i trattati verranno rispettati”. Parole che ben si conciliano con i sentimenti espressi dal presidente dell’Unione europea, l’ex premier belga Herman Van Rompuy, il quale ha detto chiaramente durante il suo discorso di insediamento, lo scorso novembre, che “il 2009 è anche il primo anno di una autorità globale, con l’istituzione del G-20 nel mezzo della crisi finanziaria. La conferenza sul clima di Copenaghen è un altro passo verso un governo mondiale del nostro pianeta”.

Come il nostro presidente post-americano ben saprà, l’Unione europea è una fonte inesauribile di idee circa la “global governance”, nonché un’istituzione sempre tesa a condividere il suo particolare controllo burocratico e di alleviare il “deficit democratico” nel resto del mondo. Adesso il nuovo presidente europeo vanta un fervente discepolo nello Studio Ovale, e una serie di accoliti sparsi negli uffici del dipartimento di Stato.

Per diversi aspetti, la rinuncia alle “torture” negli interrogatori dei terroristi, l’impegno a chiudere il carcere di Guantanamo, il processo a Khalid Sheikh Mohammed e altri (che sarà celebrato a New York secondo tutte le regole, ndt) sono tutte cose che vogliono attestare come “le leggi internazionali non sono una vuota promessa”. Si tratta di passi che si configurano anche, pericolosamente, come una decisione di passare, nei riguardi del terrorismo, da una impostazione di guerra a una impostazione di imposizione della legge. Non è casuale che il primo applauso tributato a Obama dall’Assemblea generale sia arrivato quando ha parlato di rinuncia alla “tortura” e di chiudere Guantanamo.

Adesso c’è molta più “global governance” al lavoro. L’amministrazione Obama ha voluto e ottenuto la rielezione del nuovo Consiglio Onu per i diritti umani, alla creazione del quale l’amministrazione Bush si oppose nel 2006 rifiutandosi poi di aderirvi. Il nuovo consiglio si è rivelato ostile agli interessi americani quanto il suo predecessore, la Commissione Onu per i diritti umani, ma poter vantare un’ulteriore svolta rispetto alle politiche di Bush ha fruttato a Obama un altro giro di applausi all’Assemblea generale.

Ci saranno indubbiamente molti altri applausi in futuro. Il segretario di Stato Clinton si è impegnata a ratificare la Convenzione sui diritti del bambino, la Convenzione per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, e la Convenzione per i diritti dei disabili. Quali che siano i pro e i contro di questi accordi, la questione di fondo è quanta “legge” l’amministrazione Obama abbia intenzione di fare al di fuori del codice statunitense – peraltro in costante crescita – che già possediamo. Per la sensibilità internazionalista di Obama, il problema è che le leggi “made in Usa” fatte da rappresentanti liberamente eletti da noi americani sono troppo “eccezionali” e troppo “parrocchiali” per avere un ruolo in un mondo interconnesso. Leggi meramente “comunali” – così vengono definite dagli studiosi di diritto internazionale – non superano il “test globale” di legittimità per la politica estera americana escogitato da John Kerry. E’ chiaro che il presidente Obama ha tutte le intenzioni di risolvere questo problema.

Il segretario Clinton, in occasione della visita a Nairobi lo scorso settembre, ha detto che “è un grande rammarico, ma è anche un fatto che non siamo ancora tra i firmatari” dello Statuto di Roma, atto di creazione della Corte penale internazionale. Così non è stata una sorpresa la conferma da parte del dipartimento di Stato, arrivata il 16 novembre, dell’indiscrezione secondo cui gli Stati Uniti parteciperanno come osservatori agli incontri dei giudici di quel tribunale. Lo status di osservatore è manifestamente un passo verso il mal dissimulato obiettivo dell’amministrazione di firmare lo Statuto di Roma, ratificarlo e diventare un membro a pieno titolo della Corte. Ovviamente, queste e altre iniziative comportano implicazioni non solo per gli Stati Uniti ma anche per stretti alleati come Israele, che sono sempre stati protetti dagli Usa.

Il progetto di Barack Obama annuncia guai per l’autonomia, l’autogoverno, la difesa dell’America, tutti elementi essenziali della sovranità nazionale. La sua franca indifferenza alle ripetute erosioni di questa sovranità sono perfettamente in linea con le opinioni dei suoi ammiratori europei, i quali, dal loro punto di vista, sarebbero lieti di vedere i propri stati dissolversi entro l’Unione europea. La verità, però, è che gli Stati Uniti sono eccezionali, e non si scioglieranno in alcuna unione a carattere globale; diventeranno semplicemente meno capaci di proteggersi, e di proteggere il proprio sistema decisionale stabilito dalla Costituzione. Con tutta evidenza, è questo il punto dove ci porteranno le politiche del nostro primo presidente post-americano. (Seconda puntata. Fine)

Tratto da Commentary

Traduzione di Enrico De Simone