Gli insediamenti sono il punto più basso dei rapporti fra Europa e Israele
07 Dicembre 2009
Gerusalemme. Che autogol per la residua credibilità europea in politica estera! Benjamin Netanyahu annuncia il congelamento degli insediamenti per 10 mesi. E la presidenza svedese dell’Unione prepara una bozza di risoluzione che sembra copiata con carta carbone da un documento palestinese: uno stato con i confini del ’67 e Gerusalemme est come capitale. Si dirà, niente di nuovo. Vero. Ma in diplomazia non conta solo cosa si dice, ma anche e soprattutto quando. Accendere i riflettori su Gerusalemme, il nodo più controverso , all’indomani dello stop israeliano a nuove costruzioni in Cisgiordania equivale a dare un sonoro schiaffo a Benjamin Netanyahu.
E’ assai probabile, dice una fonte diplomatica italiana, che la bozza subirà una profonda revisione prima di lunedì, quando verrà portata al voto dei 27 ministri degli Esteri. Franco Frattini, atteso a Gerusalemme e a Ramallah il 9 dicembre, è tra i più attivi nel premere per un cambiamento sostanziale dei toni. Ma anche se il documento finale sarà più bilanciato della bozza, il danno è fatto. Netanyahu, riferisce chi gli è vicino, è furioso. Tanto che ha ordinato ai suoi uomini di tempestare di telefonate gli ambasciatori dei 27. Il ritornello è questo: con simili documenti, l’unico risultato è di dare al presidente palestinese Abu Mazen un pretesto per continuare a starsene alla finestra, allontanando nei fatti la ripresa del negoziato.
I rapporti tra Israele e Unione europea hanno toccato uno dei punti più bassi durante il semestre di presidenza svedese. Si è sfiorata la crisi diplomatica in almeno due circostanze. La prima quando Stoccolma si rifiutò di criticare un articolo dal sapore antisemita comparso sul principale quotidiano del Paese. La seconda per l’intenzione del ministro degli Esteri svedese Carl Bildt di visitare Gaza. Ora, a presidenza quasi conclusa, terza crisi.
I toni del documento in preparazione a Bruxelles rendono la vita più difficile a Netanyahu nel momento in cui deve fronteggiare le resistenze alla sua svolta. Il dibattito sul congelamento degli insediamenti nella colazione è stato vivace. La decisione è stata presa con un voto contrario, due astensioni e molti mugugni. Mai un governo israeliano si era impegnato a porre un freno alle nuove costruzioni in Cisgiordania. L’unico precedente riguarda il Sinai e dovrebbe far riflettere i critici di oggi. Begin decretò una moratoria di 3 mesi degli insediamenti quando iniziò il negoziato con Sadat.
Con la sua mossa, Netanyahu si è messo in rotta di collisione con una parte del suo elettorato. All’ingresso di Ofra, i coloni, ai cui occhi il premier fino a ieri era un idolo, hanno scritto: “Bibi, Arabs in, Jews out”. Nemesi storica: era accaduto lo stesso al premier Sharon, quando annunciò il ritiro da Gaza e, all’epoca, era Netanyahu a guidare la protesta. Ora Bibi si trova alle prese con gli stessi problemi. Gli ispettori inviati dal governo per controllare il rispetto della decisione presa trovano i cancelli degli insediamenti sbarrati. Ci sono stati già i primi episodi di violenza. E la polizia ha dovuto procedere ai primi arresti. Neppure l’arma della seduzione personale ha funzionato: Netanyahu ha convocato i rappresentanti dei coloni, per due ore ha ascoltato le loro rimostranze, ha promesso che cercherà di alleviare i disagi causati dal blocco dei cantieri, ma non è riuscito a convincerli a mantenerne la protesta dentro i binari della legalità.
La temperatura politica in Israele è destinata a subire un’impennata. Netanyahu lo ha messo certamente nel conto. Non sembra, il premier, credere che con la sua mossa riporterà il recalcitrante Abu Mazen al tavolo negoziale. Non subito, almeno. A spingerlo a varcare il Rubicone è stata piuttosto la necessità di rinsaldare i rapporti con i suoi alleati, in primo luogo gli Stati Uniti, che avevano toccato un punto pericolosamente critico proprio mentre l’ora della verità con l’Iran si avvicina a larghe falcate. La bozza svedese invece rischia di dar man forte ai falchi contrari a qualunque passo.
Una parte dell’Europa stenta a capire che per riannodare i fili del negoziato con i palestinesi bisognerà attendere l’esito della trattativa sulla liberazione di Gilad Shalit. Per il caporale ostaggio da 3 anni e mezzo di Hamas, Israele si appresta a liberare 1000 detenuti tra cui i registi della recente intifada dei kamikaze. Hamas canterà vittoria, a ragione. E a Fatah non resta che sperare nel ritorno in libertà del suo leader più popolare, Marwan Barghouti Un ritorno ad oggi non ancora certo. In questo contesto, Abu Mazen e’ spinto ad indurire i toni, per non perdere il residuo consenso popolare. L’Europa lo aiuti a decidere, senza dargli sempre ragione.