L’addio alla politica di “Oskar il rosso” riapre i giochi nella sinistra tedesca
25 Gennaio 2010
Hannover. L’ultimo possente ruggito lo aveva emesso a fine agosto. Lo storico risultato della Linke nelle elezioni del piccolo Land della Saar, dove quasi venticinque anni prima, nelle file dell’SPD, aveva iniziato la sua fulminante carriera di governatore ne avevano visibilmente riempito il cuore di orgoglio. Persino il partito, nato ufficialmente nel 2007 dall’unione tra la sua WASG e la PDS, ma non ancora amalgamatosi bene nelle componenti “occidentale” ed “orientale”, sembrava tutto d’un tratto aver recuperato vigore e compattezza.
A cinque mesi dall’ultimo trionfo, Oskar Lafontaine sceglie la via del ritiro. La notizia della sua decisione di non ricandidarsi al congresso del partito nel maggio prossimo si era rincorsa per tutta la giornata di venerdì, dopo che per settimane la stampa tedesca aveva descritto la lotta per la successione ormai in atto alle sue spalle. Alla fine, sabato mattina, poco dopo le undici, è arrivata la conferma: il presidente della Linke fa un passo indietro.
Ufficialmente per motivi di salute. Già nel novembre scorso, infatti, Lafontaine aveva annunciato di essere malato di cancro e di doversi sottoporre ad una delicata operazione alla prostata. Operazione che era poi perfettamente riuscita e aveva nuovamente fatto calare un velo di calma apparente sull’estrema sinistra tedesca. I rumours provocati dalle uscite di Dietmar Bartsch, direttore generale del partito, reo di aver rivendicato per sé prima del tempo il ruolo occupato da Lafontaine, avevano poi nuovamente agitato le acque. A chiudere i conti è stato così lo stesso Lafontaine, che insieme alla presidenza lascerà anche il seggio da deputato al Bundestag e ripiegherà su Saarbrücken, dove continuerà a guidare il folto gruppetto parlamentare del Land.
Sessantasei anni, sposato con Christa Müller, anch’essa impegnata come portavoce del partito nella Saar, Lafontaine ha contribuito a disegnare trent’anni di vita politica del paese. Carismatico, ambizioso, intransigente, secondo alcuni anche arrogante, sin da giovane ha calcato il palcoscenico della socialdemocrazia tedesca, prima sulle orme di Willy Brandt, che nel 1987 lo avrebbe già voluto alla presidenza del partito, in seguito, dopo la caduta del Muro, come primo candidato Cancelliere della nuova Germania, la cui nascita frettolosa e non adeguatamente ponderata egli criticò senza riserve.
All’epoca vinse però il sogno della riunificazione incarnato da Helmut Kohl, che sarebbe uscito di scena solo otto anni più tardi. Nel frattempo Lafontaine scalò i vertici del partito, diventando presidente dell’SPD e guidando l’opposizione all’esecutivo giallo-nero. Con l’elezione a Cancelliere di Gerhard Schröder nel 1998 entrò nel nuovo gabinetto rosso-verde in qualità di Ministro delle Finanze. Ma la luna di miele tra i due durò l’arco di qualche stagione: le convinzioni marcatamente keynesiane di Lafontaine mal si conciliavano con l’impronta new-labour che Schröder avrebbe voluto dare all’azione di governo. I diverbi divennero frequenti, finché non si arrivò allo scontro.
Nel marzo 1999 si aprì la crisi. Lafontaine sbatté la porta, gettando il partito nel panico. Anni dopo ammetterà: “Fu un errore aver lasciato a Schröder la candidatura a Cancelliere”. Il “Napoleone della Saar” non abbandonò comunque subito i socialdemocratici. “Il mio cuore batte a sinistra”, dirà per spiegare la sua permanenza. Continuò così a lottare nelle file della corrente massimalista del partito contro la razionalizzazione dello Stato sociale, il taglio delle tasse sui redditi più alti, l’intervento della Bundeswehr in Kosovo e in Afghanistan. Nel 2005, seguito da un piccolo drappello di fedelissimi, fuoriuscì definitivamente dall’SPD e fondò l’alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale (WASG), catalizzando la protesta montante nel paese contro Schröder. Insieme alla PDS, formazione erede del partito unico della DDR, si presentò così alle elezioni nazionali, conquistando ben l’8,7% dei suffragi.
Anche all’interno della nuova creatura, nata sotto l’egida sua e di Gregor Gysi e Lothar Bisky, Lafontaine non ha tuttavia avuto vita facile. Una grossa fetta della dirigenza dell’Est non ne ha mai gradito la guida autoritaria e il piglio populista, accusandolo perfino di aver tentato di annichilire la vecchia PDS, usando la WASG come cavallo di Troia. La sua uscita di scena a pochi mesi dalle elezioni nel popoloso Land del Nord-Reno Westfalia non apre interrogativi solo per Die Linke, priva di esponenti politici di spicco, in grado di rastrellare centinaia di migliaia di voti ad Ovest, ma anche per l’SPD, da qualche mese in fase di rilancio dopo il brusco scossone elettorale. Se finora, infatti, l’alleanza con l’estrema sinistra è sempre stata scartata proprio a causa del cosiddetto fattore personale -“non si tratta con i traditori”- ora il riavvicinamento tra le due sponde della sinistra tedesca, anche se solo sui banchi dell’opposizione, si fa assai meno improbabile.