Cameron vs Bigelow: la notte degli Oscar diventa uno scontro in famiglia
07 Marzo 2010
La cerimonia di consegna degli Oscar quest’anno sembra essere stata scritta da un astuto sceneggiatore hollywoodiano. Moglie e marito, da tempo separati, si contendono la vittoria. Da una parte la californiana, nata a San Carlos nel 1951, Kathryn Bigelow, autrice di almeno un paio di film di culto: il muscolare e surfistico Point Break (1991), interpretato da uno straordinario Keanu Reeves, e l’orwelliano noir postmoderno Strange Days (1995). Kathryn Bigelow concorre all’Oscar con un piccolo film, The Hurt Locker, storia di un artificiere impegnato nella guerra in Irak. Dall’altra parte l’ex marito (i due sono stati sposati dal 1989 al 1991) James Cameron, con Avatar, regista e film che non hanno bisogno certo di presentazioni.
Dunque Davide contro Golia. La megaproduzione contro l’indipendenza. Le grandi majors di fronte alle piccole compagnie. La fantasia degli effetti speciali contrapposta al realismo della storia. Il mondo virtuale della fantascienza della guerra finta degli uomini azzurri contro la drammatica realtà della guerra vera, che miete la vita o maciulla il corpo dei ragazzi americani. I produttori e le loro armi economicamente strapotenti in concorrenza con le armi spuntate della stampa cinematografica. Basta così. Sulla carta la partita sarebbe già chiusa in partenza. Difficilmente gli agnelli mangiano i leoni. Eppure stavolta nulla è scontato. Anzi, molti addetti ai lavori hollywoodiani, con l’avvicinarsi della magica nottata, prevedono un verdetto epocale. Cerchiamo di capire perché.
Storicamente il premio Oscar non è stato utilizzato per stabilire la classifica dei migliori film dell’anno, né per fissare i parametri artistici del cinema americano. Le statuette d’oro servono a promuovere commercialmente i film, e a riconoscere soprattutto le qualità produttive. Quindi l’arte, asse imprescindibile per i premi europei, ad Hollywood ha relativa considerazione. È la notte delle stelle, perché la parte più importante la ricoprono gli attori, ma il gioco dietro le quinte lo hanno sempre condotto i produttori. Sono loro, i pochi marchi di fabbrica rimasti più o meno intatti dal primo ventennio del XX secolo ad oggi (Warner, Universal, Paramount, Metro Goldwin Mayer, Fox), a dettare legge e spartirsi il bottino. Ogni tanto qualcosa sono costretti a concedere. Se Steven Spielberg realizza Schindler’s List come è possibile negargli il premio? Appunto, ne prese due, per la migliore regia e per il miglior film. E Martin Scorsese? Ad un certo punto, visto che si ostina a realizzare film di grande livello, una statuetta bisogna pur dargliela. Nel 2007, dopo quasi trent’anni di carriera (il debutto nella regia di Scorsese è datato 1969), per The Departed gli assegnarono quattro statuette.
Il meccanismo consolidato in questa edizione potrebbe incepparsi. Avatar di Cameron, lo dicono i numeri, è produttivamente e ideologicamente il perfetto film hollywoodiano. Anzi, è qualcosa in più. Indica una strada da percorrere in futuro, per far continuare a crescere una fra le industrie più importanti (se non la più importante) d’America. Eppure il piccolo, minuscolo, insignificante sassolino rappresentato da The Hurt Locker, rischia di far saltare la grandiosa macchina messa in moto pochi mesi fa e destinata ad arrivare, dopo una cavalcata travolgente, alla santificazione degli Oscar.
Ma come è potuto accadere tutto ciò? La colpa (o il merito, dipende dai punti di vista) è del film di Kathryn Bigelow. Negli ultimi anni sono stati realizzati svariati film sulla guerra in Irak, ma hanno ottenuto scarsissimo successo. Redacted, opera insolita del regista di talento Brian De Palma, vinse il Leone d’argento al Festival di Venezia nel 2007, tra un coro osannante di consensi. In Italia non trovando distribuzione, il film uscì direttamente sull’emittente satellitare SKY. In America il film-denuncia di Brian De Palma ha incassato la miseria di 65.000 dollari (nel resto del mondo ne ha fatti poco più di 700.000). Redacted racconta un drammatico episodio di cronaca, avvenuto durante la guerra in Iraq: cinque soldati americani stuprano brutalmente e uccidono un’adolescente irachena, e per far sparire le tracce del crimine, danno fuoco al cadavere e sterminano l’intera famiglia. Storia vera, crudele. Schifosa. Buona per circuitazione festivaliere europee, sempre ben disposte all’anti-americanismo, e proprio per questo generose con i premi.
Naturalmente The Hurt Locker non è Redacted. Kathryn Bigelow non intende mettere il dito sulla piaga, né denunciare alcunché. Racconta, come suo solito, la storia di un eroe coraggioso, molto più a suo agio nello sminare bombe in terreno di guerra che non a casa. La routine quotidiana per lui è devastante: come far salire l’adrenalina con una moglie, la spesa al supermercato, la cura del giardino? Meglio il pericolo di morte al fronte. Così descritto potrebbe apparire un veicolo per immagini di ideali militari e quindi conservatori. La femminista radicale Martha P. Nochimson della New York University, nel film vede addirittura il fantasma di John Wayne. Invece l’abilità della regista ha trasformato The Hurt Locker nella migliore variante della retorica liberal “politicamente corretta”, ostile alla guerra di Bush. Nell’edizione di domenica scorsa del “Los Angeles Times”, un lungo articolo sostiene invece il contrario di Martha P. Nochimson: il sergente sminatore protagonista, è il modello di un nuovo eroe del film di guerra uscito dall’universo femminile. La regista è stata molto attenta, nelle interviste, ad accompagnare il suo lavoro nella direzione del “politicamente corretto”. E di mese in mese le quotazioni di The Hurt Locker sono lievitate. I consensi critici sono cresciuti a dismisura e la battaglia degli Oscar da evento impossibile, miraggio irraggiungibile, si è posizionata sulla pista giusta di decollaggio. La cronaca degli ultimi giorni ha fatto assumere alla battaglia, come ha scritto il “Los Angeles Times”, i contorni dell’imbroglio, a causa di una e-mail inviata dal produttore di The Hurt Locker, che invitava a non votare per Avatar, meritandosi l’esclusione dalla serata conclusiva. Il quotidiano di Los Angeles è stato fra i principali sponsor del film di Kathryn Bigelow, al quale ha dedicato ampio spazio, con servizi e commenti di qualità. Insomma l’oscar-mania si sta trasformando in oscar-isteria. Stanotte sarà in mondovisione. Riuscirà Davide ad atterrare Golia? Oppure come spesso succede, tra i due litiganti, si dovrà scegliere un terzo candidato?