Ecco perché non firmo l’appello anti-Bush

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Ecco perché non firmo l’appello anti-Bush

07 Giugno 2007

Anche a me, come a tutti i cosiddetti “americanisti” italiani (gli “studiosi e docenti della cultura e della storia degli Stati Uniti”) è stato chiesto da alcuni colleghi di sottoscrivere un breve appello la cui occasione è l’ormai prossima visita in Italia del presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Non so ancora quanti abbiano aderito e chi comprenda l’elenco dei firmatari. Ho però ragione di credere che tale elenco includa la grande maggioranza degli americanisti italiani. Sono certo di essere stato uno dei pochissimi a dire di no e a rifiutarmi di firmare. Non l’ho firmato perché sono contrario tanto alla forma quanto alla sostanza di quell’appello.

La forma è astutamente generica e redatta in modo che, se non se ne conoscesse il contesto, non si potrebbe che essere d’accordo. Si inizia ricordando i “rapporti di amicizia, di ammirazione e anche di riconoscenza” nei confronti degli Stati Uniti (probabilmente un riferimento al contributo di sangue offerto dagli americani alla Liberazione dell’Italia nel 1943-5), nonché con un riconoscimento generico della “testimonianza” offerta dalla storia di quel paese per i “diritti universali, la libertà delle … istituzioni, l’amore per il principio di verità” (e qui si va probabilmente indietro fino alla Rivoluzione Americana del 1775-83 e alla Costituzione del 1787).

Poi si continua, sempre più astutamente, con una formulazione genericissima che non esplicita alcuna delle questioni davvero in ballo, ma che usa formule vaghe volte a ottenere il maggior numero di consensi e di adesioni: “Ci rivolgiamo al Governo della Repubblica Italiana perché, in un clima di correttezza istituzionale [forse un invito a Fausto Bertinotti, Presidente della Camera dei Deputati, a dare la mano a Bush?], affronti le gravi questioni politiche e giudiziarie – tali da chiamare in causa la tutela di diritti e vite umane – che oggi turbano il rapporto tra due popoli e due stati”.

Lasciamo perdere il solito riferimento all'”altra America” implicita nella formuletta “due popoli e due stati”, che sottintende uno “stato” che non rappresenta il “popolo”, e quindi un popolo americano che non si riconosce in un presidente che ha democraticamente eletto. Ma “questioni politiche e giudiziarie”? “Diritti e vite umane”? Se l’appello intende obliquamente riferirsi all’intervento alleato in Afghanistan, a quello angloamericano in Iraq, all’allargamento della base militare di Vicenza, al prelevamento del ministro musulmano Abu Omar, al caso del marine Mario Lozano, a quello del giornalista Daniele Mastrogiacomo, ma forse anche alla restituzione (1999) e successiva liberazione per indulto della brigatista Silvia Baraldini (2006), all’incidente della funivia del Cermis (1998), o magari anche alla libertà concessa agli assassini del cittadino americano Leon Klinghoffer, ebreo e paralitico, gettato in mare dall’Achille Lauro (1985), tutto ciò non viene mai esplicitamente detto. L’appello è astutamente redatto in modo che ognuno possa immaginare nella fumosità delle parole il peggior esempio di tutti i misfatti americani.

L’unica concessione dell’appello alla sostanza (si fa per dire) è il riferimento alla “attuale Amministrazione” (leggi Bush) e alle “diverse sue decisioni” (anche qui nessun dettaglio specifico) con le quali essa avrebbe” attentato a questo patrimonio di valori comuni” (immaginiamo ancora: diritti, libertà, verità…).

Ma veniamo alla sostanza dell’appello. In primo luogo, che cosa dire del destinatario dell’appello stesso, il “Governo della Repubblica Italiana”, che non ha alcuna politica unitaria nei confronti dell’alleato americano? Come ben sappiamo, quando arriverà in Italia, i membri della coalizione governativa lo accoglieranno manifestando contro di lui, non ricevendolo, protestando, limitandosi freddamente agli “obblighi istituzionali”, salutandolo sulla porta di casa, ma anche manifestando platealmente a suo favore (Marco Pannella). E questo sarebbe un Governo “unitario” al quale appellarsi per affrontare “le gravi questioni politiche e giudiziarie”?

In secondo luogo, l’appello, nonostante il suo dire e non dire, è chiarissimo nella sua condanna, in toto, della presidenza Bush. Ora, che quell’amministrazione abbia compiuto errori politici e militari, abbia scelto dirigenti che ha poi sconfessato, si sia illuso di poter vincere la guerra con pochi uomini e di poter esportare rapidamente la democrazia, è sotto gli occhi di tutti ed è anche sotto gli occhi degli americani, i quali non tributano più al loro presidente quel consenso che gli avevano dato all’indomani dell’11 settembre 2001. Del resto, come diceva il commediografo inglese George Bernard Shaw, “He who can, does. He who cannot, teaches” (“Chi sa, fa; chi non sa, insegna”). Cercando di migliorare il mondo, gli americani hanno anche commesso errori. Criticando sempre e comunque Bush e l’America, gli intellettuali europei, compresi gli americanisti, si sono forse messi la coscienza a posto, ma sono stati certamente irrilevanti nel migliorare i destini dei loro simili. Resta comunque l’incredulità nei confronti di quel curioso e contradditorio elemento che è proprio del DNA degli americanisti europei, e di quelli italiani in particolare, per cui essi sono sempre e comunque contro l’establishment statunitense e in perenne, affannnosa e illusoria ricerca di quell’altra America che non c’è.

Forse i miei colleghi americanisti, a molti dei quali sono legato da anni se non decenni di frequentazioni e amicizie, sarebbero più credibili nel loro antiamericanismo (che proprio perché non capisco non posso che definire “viscerale”), se in tutti questi ultimi decenni essi non si fossero sempre e comunque schierati dalla parte sbagliata della storia: con l’Unione Sovietica di Stalin e Krutschev, con la Rivoluzione Culturale Cinese di Mao Tse-tung, con il Muro di Berlino di Eric Honecker, con i missili cubani di Fidel Castro, e perfino con gli ayatollah di Khomeini. Nella migliore delle ipotesi, se ne sono poi pentiti vent’anni più tardi, quando altri (e non loro) avevano personalmente pagato per abbattere muri e tirannie. Ma oggi, di nuovo, sono con “il popolo iracheno”, “il popolo afghano”, “il popolo palestinese” e andate elencando, purché il minimo comune denominatore sia l’antiamericanismo (nonché naturalmente l’antisemitismo – ma questo è un altro, incomprensibile capitolo).

No, cari colleghi, l’appello anti-Bush non lo firmo. Se non ci fossero gli Stati Uniti, il mondo di oggi sarebbe un mondo certamente peggiore. Voglio essere libero di criticare l’amministrazione Bush per tutto quanto ha fatto finora e per quanto continuerà a fare, lui e i presidenti che lo seguiranno. Ma non mi stancherò mai di ringraziare Bush per avermi consentito e consertirmi ancora, con il suo personale impegno per la democrazia e con la forza anche militare del suo paese, di esprimere le mie critiche e di difendere le mie opinioni. Di professione sono un americanista, non un antiamericanista.