In Italia c’è ancora bisogno di una destra conservatrice

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In Italia c’è ancora bisogno di una destra conservatrice

29 Luglio 2010

Per comprendere fino in fondo la natura dell’ormai profonda divaricazione prodottasi all’interno del Popolo delle libertà tra la grande maggioranza del partito e la minoranza che fa capo a Gianfranco Fini è necessario ripensare la complessa storia vissuta nel dopoguerra da quei moderati italiani che il pdl aspira a rappresentare.  Nel suo recente volume Tre giorni nella storia d’Italia, Ernesto Galli della Loggia afferma tra l’altro che in Italia, a causa del legame inscindibile tra fondazione dello Stato unitario e rivoluzione, è sostanzialmente impossibile qualificarsi come "conservatori", rimanendo appunto solo la possibilità di un’area, più o meno approssimativa, dei "moderati". Un giudizio storico che ci aiuta a capire come mai nella storia italiana del Novecento, a partire dalla Grande Guerra e dalla crisi politico-istituzionale immediatamente successiva, l’area politica dei "moderati" abbia assunto molte delle caratteristiche che altrove sono proprie di una destra conservatrice, senza però mai realizzarsi compiutamente come tale.

Al tramonto della classe politica liberale giolittiana, i moderati italiani si qualificano   innanzitutto come blocco di reazione all’ideologia e all’organizzazione di massa allora ritenuta più pericolosa e sovversiva nel grosso corpo della piccola e media borghesia italiana, cioè il bolscevismo appena trionfatore in Russia e dilagante in Italia nel "biennio rosso". Per questo, l’opinione pubblica moderata vuole credere alla promessa di stabilizzazione e ordine del fascismo, sperando in una sua evoluzione, appunto, moderato-conservatrice, fino a quando esso non si qualifica invece come ideologia totalizzante almeno quanto quella marxleninista.

Da allora, il ceto medio italiano digerisce il regime mussoliniano con disagio, tra nostalgie di "strapaese" e speranze di nuovo benessere. Finché, con la rovinosa deriva della II guerra mondiale, il disagio si evolve in decisa presa di distanza, e in un’ansiosa attesa della "restaurazione" di un regime politico ricalcato su quello liberale tradizionale. Aspirazione subito contraddetta dal fatto che la nuova classe politica succeduta al fascismo, e impostasi sull’onda della Reststenza, era composta di  partiti in gran parte fortemente ideologizzati, tra i quali in particolare, nuovamente, i vessilliferi della collettivizzazione socialcomunista. Il regime dittatoriale, peraltro, aveva lasciato un segno indelebile nella mentalità dei ceti moderati del paese: l’assuefazione, ma insieme l’istintiva repulsione per l’onnipresenza invadente e monopolistica del partito politico nella vita economica, sociale ed istituzionale, come mediatore che imponeva un’obbligatoria e alternativa obbedienza rispetto alla sovranità dello Stato.

Da qui, un’adesione molto diffidente e guardinga alla nuova democrazia, in cui i settori tradizionalisti dell’opinione pubblica lanciano segnali regolari ed inequivocabili di avversione ad ogni deriva ideologica o progetto di trasformazione radicale, dalla Costituente al dopo-1989. Ricordiamo alcuni tra i principali momenti in cui l’opinione pubblica moderata esprime con chiarezza le sue preferenze e idiosincrasie: il successo elettorale effimero ma sorprendente dell’"Uomo qualunque"; la diserzione totale degli elettori nei confronti del Partito d’Azione; la concentrazione dei consensi moderati nella Democrazia cristiana in quanto affidabile bastione anticomunista, accompagnata però da reiterate manifestazioni di protesta nei confronti del partito cattolico ad ogni accenno di scivolamento verso sinistra (i consensi alle destre neofasciste "in doppiopetto" e monarchiche negli anni Cinquanta, e poi di nuovo nel post-Sessantotto, o al Partito liberale nel 1963 contro il centrosinistra); la forte investitura sulla leadership di Spadolini e Craxi contro il duopolio Dc-Pci tra anni Settanta e Ottanta; e infine, al tramonto della classe politica post-antifascista, l’esplosione dei consensi alla Lega Nord.

Mai, comunque, i moderati italiani si identificano fino in fondo nell’assetto politico-costituzionale repubblicano, considerato generalmente da loro troppo condizionato da ingombranti presenze para-totalitarie e in generale da velleità costruttivistiche. Essi costituiscono, così, una massa costante di nervosismo e malcontento, sempre pronti ad emergere in circostanze di particolare incertezza.

Possiamo dire allora, complessivamente, che nel secondo dopoguerra italiano il moderatismo (para-)conservatore si esprime in Italia soprattutto attraverso tre vettori politico-culturali: 1) la richiesta di "legge e ordine" contro qualsiasi agente di sovversione sociale (in continuità con i traumi e le paure del primo dopoguerra); 2) l’avversione profonda per le ideologie e i grandi progetti di trasformazione/riorganizzazione della società; 3) la conseguente diffidenza maturata verso i partiti organizzati in quanto tali (comprovata proprio dalla maggioritaria adesione al partito meno "partito" di tutti, la Dc nata dalla presenza ecclesiastica sul territorio e cresciuta in una reticolare struttura correntizia piuttosto che in una logica verticistico-gerarchica).

Si potrebbe aggiungere che, nel solco profondo della storia italiana, l’opinione pubblica moderata tende naturalmente ad intrecciarsi – sebbene non a coincidere del tutto – con l’obbedienza ai dettami sociali e politici della Chiesa cattolica: il che configura un’ulteriore fonte, com’è intuibile, di spontanea diffidenza  verso la classe politica nazionale, ereditata dalle ferite post-risorgimentali e confermata dall’avvento delle "religioni secolarizzate" novecentesche.

Nel passaggio dalla "prima Repubblica" proporzionalista e consociativa, fondata sul sistema "bloccato" delle maggioranze di coalizione a base centrista, alla "seconda" a base bipolare, i "vettori" sopra elencati subiscono consistenti modificazioni e si ricombinano in nuovi equilibri.

Innanzitutto, man mano che si approfondisce la crisi profonda del sistema dei partiti e il discredito di una classe politica percepita come inamovibile, la tendenza antipartitista ed antistatalista dei ceti medi italiani assume nuovamente aspetti  populisti e tout court "antipolitici". Quando poi le inchieste giudiziarie sulla corruzione politica e sul finanziamento illecito ai partiti determinano il collasso dei partiti di governo, l’ondata antipolitica tende a colorarsi sempre più di un atteggiamento moralista-giustizialista, che addebita la crisi dei partiti sostanzialmente alla disonestà personale degli attori politici (la "questione morale" che era stata evocata per la prima volta come arma politica dal segretario comunista Enrico Berlinguer). In questa forma, essa assorbe in gran parte anche l’istanza "legge ed ordine" tradizionalmente propria della destra neofascista, che come la sinistra ex-comunista tendeva ora a ritornare nel "grande gioco" politico qualificandosi come estranea al malcostume consolidato dei decenni precedenti in quanto opposizione "di sistema".

Quando, con il debutto della dialettica bipolare nel 1994, si forma la prima coalizione di centrodestra sotto la guida di Silvio Berlusconi, essa fonde quindi, sotto il comune denominatore dell’avversione al progressismo statalista di una sinistra egemonizzata dai post-comunisti, due componenti potenzialmente distanti: il "neo-qualunquismo" antistatalista di Forza italia e della Lega da un lato, la richiesta legalitaria e di ordine della destra postfascista di Alleanza nazionale dall’altra.

Con il passare degli anni e delle legislature, questo quadro si è andato evolvendo e complicando: la Lega si è fatta in gran parte alfiera a sua volta delle istanze law and order e "securitarie", mentre nella grande maggioranza di An si è imposta nettamente una cultura politica liberale attenta alle garanzie dei diritti individuali. E tuttavia la linea divisoria costituita dal legalismo giustizialista ha continuato a rimanere latente all’interno del centrodestra, mentre un’adesione pressoché totale all’interventismo politico degli uffici giudiziari si presentava invece decisamente maggioritaria nel centrosinistra, dall’Ulivo all’Unione fino alla fondazione del Partito democratico e alla sua alleanza con l’Idv di Antonio Di Pietro. Similmente, mentre nel tempo si andava determinando un’analoga polarizzazione sui temi bioetici e biopolitici (adesione ai princìpi universalistici della morale cattolica a destra, libertarismo relativista e laicismo a sinistra) nell’alleanza tra i moderati e la destra si manifestava anche su questo punto una divaricazione tra una larga maggioranza filocattolica ed una minoranza ex-fascista di impronta aspramente secolarista, in continuità con le ideologie novecentesche.

Il passaggio dalla coalizione della Casa delle libertà al partito unitario, avvenuto tra 2007 e 2008, ha reso più evidenti e difficilmente gestibili quelle differenze preesistenti. La sfida ormai aperta, ed in apparenza sempre meno componibile, tra Berlusconi e Fini non è altro che il momento in cui vengono inevitabilmente al pettine quelle irrisolte contraddizioni di fondo.

Gli esiti possibili del contrasto appaiono al momento sostanzialmente due. Il primo è l’avvio effettivo di una dialettica interna nel Pdl, che consenta la determinazione chiara dei rapporti quantitativi di forza tra le due componenti, con relativa definizione dell’organigramma e delle linee programmatiche. Il secondo è l’espulsione della componente "giustizialista" minoritaria per manifesta incompatibilità con l’opinione prevalente. Ma il verificarsi di questa seconda ipotesi comporterebbe necessariamente una delicata fase di assestamento del sistema politico italiano. Il pomo della discordia costituito dalla rilevanza delle tendenze giustizialiste, infatti, non è una linea di divisione tra le altre della politica italiana attuale, ma forse quella più delicata, che attraversa l’intero quadro politico ed istituzionale. L’esplodere del contrasto su questi temi nel maggiore partito italiano comporterebbe dunque una tendenza, non si sa quanto marcata, alla destrutturazione del centrodestra attuale, ma per riflesso anche del centrosinistra, in cui potrebbero esplodere contrapposizioni analoghe. Con conseguenze ancora non quantificabili sulla tenuta stessa dello schema bipolare a vocazione bipartitico-maggioritaria.