Sovrapposizione di competenze, leggi contorte e cattiva giustizia contro la libertà d’impresa

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Sovrapposizione di competenze, leggi contorte e cattiva giustizia contro la libertà d’impresa

08 Giugno 2010

Il premier Silvio Berlusconi e il Ministro dell’economia Giulio Tremonti annunciano una iniziativa per la libertà di impresa che dovrebbe avere un carattere semi rivoluzionario, in quanto si accompagnerebbe, a quanto sembra, ad una norma di natura costituzionale per l’interpretazione autentica e forse la modifica dell’articolo 41 della costituzione, riguardante l’iniziativa economica privata, introducendo il principio generale della libertà di impresa accompagnato dal principio che tutto ciò che non è esplicitamente vietato è permesso e riducendo, a quando sembra, i poteri di intervento delle Regioni e degli enti locali che intendano limitare sostanzialmente le imprese con le loro regolamentazioni, al di fuori di casi e di limiti temporali rigidamente stabiliti.

Tremonti, in effetti, nel vertice del G20 in Corea ha fatto riferimento a un provvedimento sotto forma di legge costituzionale limitato all’economia reale e che non considera la finanza, ma con l’urbanistica a parte. Ed ha esplicitamente aggiunto che il piano casa di Berlusconi si è arenato a causa dell’interesse di molti settori a bloccare tutto.

L’articolo 41 della Costituzione, che fu steso in modo nebuloso per un compromesso fra i padri costituenti fautori dell’economia di mercato e quelli dirigisti o filo collettivisti, afferma bensì nel suo primo comma, in modo solenne, che “L’iniziativa economica privata è libera”. Ma nel secondo comma, quasi a smentire quanto affermato nel primo, esso stabilisce che tale iniziativa “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

La dizione, come si nota, è amplissima, soprattutto con riguardo all’utilità sociale, che può essere interpretata in molti modi, sino al punto di annullare la libertà di iniziativa individuale.

A sua volta, il terzo comma, sulla base del secondo stabilisce che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Come si nota, questo terzo comma distorce il primo perché stabilisce che l’iniziativa economica privata va indirizzata ai fini sociali mediante programmi e controlli.

Va tuttavia notato che il dirigismo che emana da questa norma, nella sua tortuosa ambiguità e contraddittorietà, ha subito una forte limitazione con la firma del Trattato di Roma riguardante il Mercato comune, poi diventato Unione europea, che afferma il principio della non distorsione della concorrenza, almeno con riguardo a tutto ciò che concerne gli scambi fra gli stati membri e il diritto di impresa e investimento in tutto il territorio dei paesi membri da parte di tutti i soggetti di tutti gli stati.

L’Atto Unico approvato con il vertice di Milano del 1984 e poi il Trattato di Maastricht hanno rafforzato i criteri di libera iniziativa e di mercato di concorrenza. E quest’ultimo ha esplicitamente stabilito che l’Unione europea ha il compito di promuovere un mercato comune e un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno.

I trattati internazionali sono superiori alle leggi ordinarie ed è oramai ampiamente riconosciuto che l’ordinamento europeo sovrasta quello italiano. E ciò anche se il parlamento, secondo la costituzione italiana, non vota i trattati internazionali con le procedure proprie delle leggi di modifica della costituzione. Il quesito se con il Trattato di Maastricht si sia potuto modificare in senso non dirigista il regime costituzionale italiano, per quanto riguarda l’iniziativa economica privata e la libertà di impresa è mal posto dato che questo articolo è ambiguo. Si può, invece sostenere che le norme europee in rapporto all’articolo 41 della nostra costituzione hanno accentuato la rilevanza del primo comma e ridotto la portata del secondo e del terzo.

Ma anche le norme europee hanno un certo grado di ambiguità e di nebulosità. E quindi è stato sino ad ora possibile mantenere in Italia un impianto di interferenza continua della legge, della pubblica amministrazione e dell’ordinamento giudiziario nell’economia di mercato. E da metà degli anni 90 in poi, nonostante che l’Italia abbia aderito al Trattato di Maastricht e che il sistema italiano delle imprese abbia avuto la necessità di accrescere la propria competitività nel nuovo quadro europeo, questa interferenza si è accentuata. Ciò a causa dell’avvento della cultura a giustizialista. Alcuni esempi. 

Abbiamo una complicata legge anti riciclaggio, con cui le imprese sono diventate, tramite un artificio giuridico, un soggetto di diritto penale, nonostante che la responsabilità penale per la nostra costituzione sia personale. Esse possono essere commissariate dal pubblico ministero anche prima di un processo e anche solo per una responsabilità oggettiva, derivante dal fatto che la loro struttura organizzativa è lacunosa, con riguardo alla prevenzione e scoperta di eventuali reati commessi da suoi addetti, che le hanno arrecato un vantaggio rilevante. Con la legge Merloni, varata nel clima di “mani pulite” e poi riformata e complicata, le norme sugli appalti sono state rese molto più complesse di quelle precedenti e si è stabilito il principio per cui il criterio unico di aggiudicazione è il prezzo più basso, così da trascurare gli altri requisiti e da dare luogo a complessi contenziosi quando l’aggiudicatario a causa del prezzo troppo basso non è più in grado di proseguire nell’opera.

La complessità di queste procedure ha generato il ricorso alla procedura di urgenza della protezione civile anche per ambiti diversi da quelli delle calamità ed emergenze a cui essa è preposta, come nel caso dei cosi detti “grandi eventi”, facendo sorgere, come si sa, nuovi problemi in relazione alle gelosie di operatori che si sono ritenuti sfavoriti dalle assegnazioni, pur considerandosi titolati ad averle, in quanto politicamente importanti. Sono intervenute nuove leggi ambientali, ecologiche, paesistiche e nuovi poteri regionali concorrenti con quelli dello stato mediante la riforma costituzionale federalista del governo Prodi ispirata al principio consociativo. E si è assistito a una continua estensione dei compiti di programmazione del territorio e sul territorio, così da assorbire di fatto l’iniziativa privata dell’edilizia nel dirigismo urbanistico, che è diventato dirigismo tout court. I veti locali alle opere grandi, medie e piccole si susseguono. Le reti elettriche, i trasporti, i porti, i gasdotti, i gassificatori, i termovalorizzatori, l’alta velocità, la libertà di commercio, per la grande e media distribuzione si sono arenati in questa ragnatela.

E l’ipotesi di costruire centrali nucleari in Italia, con i relativi permessi urbanistici e paesistici, alla luce di ciò, appare, al presente surreale. L’elenco potrebbe continuare. Ogni volta che Silvio Berlusconi ha tentato di stabilire norme per la creazione in un giorno dell’impresa o per consentire procedure snelle per le opere pubbliche e per l’edilizia (vedi leggi obbiettivo) o per rilanciare l’edilizia abitativa mediante l’aumento delle cubature degli edifici, pur con la salvaguardia ambientale e solo per quelli di minor dimensione, questi tentativi si sono infranti contro ostacoli giuridici di vario genere.

Mi pare di capire che l’idea è quella di iniziare la procedura parlamentare per modificare l’articolo 41 della Costituzione e, simultaneamente, attuare riforme di leggi e di procedure amministrative che possono suscitare la reazione di potenti interessi lesi, che minacciano ricorsi costituzionali. Con la sopravveniente riforma costituzionale tali opposizioni con armi legali dovrebbero essere disinnescate. Insomma un insieme di riforme strutturali ai vari livelli, costituzionale e sub costituzionale per stabilire – o meglio “recuperare ”- il principio costituzionale della libertà di impresa, allo scopo di togliere le catene alla nostra economia.

Attualmente l’Italia, nelle rilevazioni della Banca Mondiale riguardanti le attività di impresa e le iniziative economiche, è al 78simo posto nella graduatoria, su 183 stati esaminati. E’ al numero 76 per quanto riguarda l’inizio di una impresa, allo 85 per quanto riguarda i permessi di costruzione, al 99 per quel che concerne l’occupazione di manodopera e i relativi rapporti contrattuali, al  98 per le operazioni di acquisto e cessione di proprietà immobiliari, allo 87 per la difficoltà e costosità nell’ottenimento di credito, al 57 per la tutela del diritto di investimento, al 138 per la tassazione con riguardo sia agli oneri di essa che alle sue procedure e incombenze considerate  dal punto di vista internazionale, alla posizione 50 per il commercio interstatale, a 156 per la risoluzione delle controversia relative alla applicazione dei contratti, risale a quota  28 per la chiusura di una impresa o investimento. Chiudere l’impresa è molto, ma molto più facile che aprirla!

L’appalto delle grandi opere è uno dei drammi italiani. Secondo uno studio dell’ISAE (che il decreto anti crisi ha soppresso come ente a sé stante e inserito nel Ministero dell’economia) al 30 aprile del 2007 lo stato di attuazione del programma delle grandi opere che dovevano essere accelerate con la Legge obbiettivo era il seguente. Fatto 100 il valore complessivo delle opere, il 69,5 per cento risultava nella fase di progettazione, il 7,5 in gara, il 20,8 in esecuzione di contratto. Il 2,3 era stato ultimato. Tre anni prima, al 30 aprile 2004, le grandi opere in progettazione erano state il 73,6 per cento, quelle in gara il 7,8%, quelle con contratto 8,7% e quelle ultimate solo 0. Alla fine del triennio le opere ultimate erano il 2,3% e ciò dimostra come si è arenata la Legge obbiettivo perché per i “grandi eventi” si è pensato di ricorrere alla Protezione civile, ora a sua volta bloccata da lente procedure giudiziarie di natura penale.

Per capire la ragione di alcuni dei punteggi negativi della Banca Mondiale non basta il riferimento a leggi complicate e a procedure lente e macchinose con sovrapposizione di competenze fra diverse autorità amministrativi. E’ anche importante la considerazione del non soddisfacente funzionamento della macchina giudiziaria italiana con riguardo alle cause civili e in particolare a quelle di natura commerciale.

Un recente studio del Censis basato sui dati della Commissione europea, su quelli della Banca Mondiale e sui dati Istat mette in luce ritardi drammatici. In Italia secondo la rilevazione della Commissione europea, al 31 dicembre del 2006 erano pendenti 3.687.965 cause civili, contro 1.165.592 in Francia, 5444.751 in Germania. E per quanto riguarda la durata delle cause commerciali l’ Italia era al quindicesimo posto fra i primi 20 paesi del mondo con 1210 giorni. Nei processi civili la situazione è ancora peggiore: 1725 giorni. Nessuno dei 20 stati in questione apparteneva a quelli sviluppati. Contro i 1210 giorni dell’Italia stavano gli 819 della Grecia, i 577 del Portogallo i 570 del Canada, i 5’15-505 di Spagna, Irlanda, Olanda, Svezia, Belgio. Seguivano, con 417-380 giorni, Svizzera, Regno Unito, Austria, Australia, Germania. In Danimarca tali cause duravano mediamente 480 giorni, in Francia 331. E negli Usa, in Giappone, in Norvegia solo 316 giorni. Come si nota, non basta iniziare la procedura parlamentare per modificare l’articolo 41 della Costituzione e attuare in pari tempo quelle riforme di leggi e di procedure amministrative che si collegano a tale principio di libertà.

Nello stesso spirito occorre anche abbreviare le procedure processuali civili E ciò anche a vantaggio del Sud ove esse sono più lunghe della media del Nord. E non dovrebbe essere impossibile se nella graduatoria delle Corti di Appello si vede che per quella di Torino le cause civili durano 1122 giorni, il 55% del tempo media nazionale mentre a Potenza durano 2580 giorni cioè il 44% in più di tale media.