Rai a rischio implosione, ma la cura c’è
10 Giugno 2010
Forse è tempo di riparlare seriamente della privatizzazione della Rai. I segnali di un’imminente implosione del servizio pubblico che da sempre conosciamo ci sono tutti. Un carrozzone cadente e raffazzonato che dà il pane a migliaia di dipendenti, che fa contratti d’oro a prìncipi e ballerine, ma che sopravvive a se stesso nonostante gli ascensori perennemente rotti e la carenza endemica di stampanti e fotocopiatrici funzionanti.
Un’azienda, soprattutto, che proprio a causa del suo eterno cordone ombelicale con la peggiore amministrazione pubblica viene tenuto in ostaggio perennemente dagli umori politici di palazzo e intanto si permette di sostituire giornalisti, anchormen e direttori di testata per poi vederli puntualmente tornare ai loro posti in virtù di precise pronunce di solerti magistrati.
È accaduto con Michele Santoro – lo sanno tutti – e adesso capita con Paolo Ruffini, direttore di lungo corso di Rai Tre, sostituito senza troppi complimenti qualche mese fa con Antonio Di Bella (che nel suo breve interregno non ha cambiato né l’assetto né l’orientamento politico della rete), e ora di nuovo in sella, in barba ai vertici aziendali. E potrà succedere ancora, magari con protagonista lo stesso Di Bella, che, dopo essere stato sbalzato dalla guida del Tg3 a quella del canale, minaccia azioni legali se non gli sarà trovata, e in fretta, una nuova poltrona all’altezza del suo recente curriculum.
La boutade sulla possibile mancata firma al prossimo contratto di servizio da parte di un Berlusconi in vena di provocazioni (vista la concomitante minaccia di non far andare più la Protezione Civile in Abruzzo), smentite ufficiali di Bonaiuti a parte, va letta in questo senso: la Rai, continuando così, non potrà che accartocciarsi sempre più su se stessa. L’unica ricetta sensata, come detto, sembra la privatizzazione. Un approdo evocato trasversalmente da lunga pezza e messo nero su bianco, anche se in maniera timida, tra gli articoli della famigerata legge Gasparri, senza che ne scaturisse niente di concreto, e poi ipotizzata dallo schema di riforma partorito dalla mente di un Walter Veltroni ancora in auge, che identificava in una fondazione tutta da inventare l’organo di garanzia che assicurasse un certo equilibrio politico dell’azienda.
Il fatto che per ora tutti i tentativi di privatizzare la Rai si siano trasformati in solenni buchi nell’acqua non significa che l’idea debba essere definitivamente cestinata. Certo, non sarà facile metterla in atto in questa legislatura, perché a ogni passo l’opposizione griderà al conflitto d’interessi, e non sempre senza motivo, visti gli attori in campo.
Di sicuro occorre un cambio di passo, a meno di non volersi accontentare di soluzioni gattopardesche come quella appena approvata all’unanimità dalla Commissione di Vigilanza Rai, che prevede la pubblicazione dei compensi di conduttori, ospiti e opinionisti che lavorano nel servizio pubblico radiotelevisivo nei titoli di coda dei programmi. Un modo come un altro per alimentare, in nome della nuova glasnost di Viale Mazzini, la rabbia di chi paga regolarmente il canone Rai e ancora non ha capito perché.