Ecuador, passata la paura per il presidente Correa
02 Ottobre 2010
In America Latina spesso tutto nasce e tutto muore in un solo giorno, come il tentativo di colpo di stato in Ecuador ai danni del presidente Rafael Correa, politicamente molto vicino ai leader della nuova ventata antimperialista sudamericana, Hugo Chavez ed Evo Morales. La vicenda rivela la fragilità di un paese che dal 1996 ad oggi ha vissuto ripetute crisi di governo ed istituzionali. Protagonisti delle manifestazioni di piazza sono stati uomini appartenenti alla polizia di stato e anche infiltrati dei partiti di opposizione al governo. La protesta, sfociata in poche ore in guerriglia urbana, è stata poi spezzata dall’intervento di 500 soldati appartenenti al Gruppo Operazioni Speciali che ha liberato il presidente Correa, ostaggio dei manifestanti nell’ospedale della capitale da oltre 12 ore. Il bilancio al termine dell’operazione, è di due poliziotti morti e trentasette feriti.
Le rimostranze sarebbero state innescate a seguito del varo di nuove misure di austerity, dirette ad alleggerire le casse dell’erario, provato dalla congiuntura economica internazionale. La manovra, che fa richiamo alla “Ley de servicios publicos”, intende apportare tagli ai benefici fiscali e salariali delle forze dell’ordine. Sebbene il presidente Correa avesse fatto cenno ad “un’interpretazione strumentale e negativa della manovra governativa”, i manifestanti ribadivano alla stampa il loro dissenso.
La protesta ha preso avvio dopo l’occupazione dei soldati delle piste dell’aeroporto internazionale, rimasto chiuso per lunghe ore, con il conseguente annullamento di numerosi voli. La violenza non ha tardato a scatenarsi: agenti della polizia hanno dato fuoco a copertoni per le strade di Quito e, poche ore dopo, hanno assediato il Parlamento. Correa, identificato come il principale responsabile, ha trovato rifugio nell’ospedale della capitale, dove è rimasto prigioniero della folla inferocite per più di 12 ore. “E’ un tentativo di colpo di stato dell’opposizione e di una parte delle forze armate e della polizia. Non torno indietro, se volete uccidermi sono qui”. Così tuonava Correa, annunciando lo stato di emergenza del paese sull’orlo della crisi.
Determinante a questo punto è stata la scelta del capo di stato maggiore, Luis Gonzàlez, di sostenere il suo comandante in capo: le forze armate "rimangono fedeli agli ordini del presidente Rafael Correa", ha dichiarato Gonzàlez, prendendo le distanze da chi aveva abbracciato la causa dei golpisti. "L’Ecuador vive in uno stato di diritto".
“Un vero e proprio tentativo di golpe, che ha avuto l’avallo ed il supporto di alcuni partiti politici”: questa la convinzione del presidente Correa pochi istanti dopo la liberazione, che ha indicato come “burattinai” alcuni suoi avversari politici. I sostenitori di Correa, accorsi in piazza Independencia, hanno accusato l’ex presidente ed ex colonnello Lucio Guitierrez, suo principale antagonista politico, di essere la mente della rivolta. "È stato il giorno più duro del mio governo", ha detto Rafael Correa davanti alla folla. "Non ci sarà perdono e non dimenticheremo", gridava.
L’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ha indetto una sessione speciale per discutere degli eventi che hanno messo a ferro e fuoco Quito. Messaggi di solidarietà al presidente ecuadoriano sono giunti dalla Casa Bianca, dall’UE e da tutti i paesi europei, così come dagli altri leader sudamericani, in primis Hugo Chávez, che di Correa ha apprezzato l’intransigenza verso i rivoltosi, temendo forse lo scoppio di simili rivolte anche in Venezuela.