Šalamov provò sulla sua pelle la discesa agli inferi dei gulag comunisti
18 Luglio 2010
di Luca Negri
Diceva Rilke che la Russia è terra che confina solamente con Dio. In effetti quella dogana metafisica diede conferma alla felice sentenza del poeta boemo per almeno un intero secolo. Dalla metà dell’800 ai primi anni della Guerra Fredda una schiera di anime russe toccò le vette dello Spirito muovendosi fra letteratura, filosofia, poesia e teologia: Dovstoevskij, Solov’ev, Blok, Berdjaev, Florenskij, Šestov, Pasternak, Solženitsyn. E Varlam Šalamov. Gli ultimi due dedicarono gran parte della loro opera di scrittori a raccontare il gigantesco esperimento criminale di allontanamento forzoso da quella prossimità con Dio. La Rivoluzione Russa e dopo lo stalinismo avevano infatti instaurato un regime di negazione storica di ogni reale trascendenza. Per giunta con la promessa del futuro Paradiso in terra, a conferma del fatto che il marxismo è un’eresia cristiana, in grado di trasformare la società umana in un inferno.
Varlam Šalamov di tutto questo fu testimone nei vent’anni di prigionia fra carceri e campi di concentramento e lavoro. Il suo martirio trovò altissima forma artistica in quel mosaico d’infamia e generosità umana che sono I Racconti della Kolyma. Meno noto è il suo “antiromanzo” (la forma è quella di appunti per un testo più organico che mai vide luce) Višera, ora pubblicato meritoriamente da Adelphi (con inedita prefazione di Roberto Saviano che proprio dall’autore russo dichiara di aver ricevuto le fondamentali lezioni di impegno civile). Se i Racconti sono ambientati nella immensa fabbrica schiavista delle miniere di Kolyma, dove Šalamov fu internato dal 1937 al primo dopoguerra, l’“antiromanzo” narra i primi anni di privazione di libertà nel famigerato carcere moscovita di Butyrki e nel campo degli Urali, presso il fiume chiamato appunto Višera.
Lo scrittore venne infatti arrestato la prima volta nel 1929, appena ventiduenne, per aver diffuso la “lettera al Congresso” di Lenin, dove erano espressi i noti e profondi dubbi su Stalin. Dopo aver scontato tre anni, Šalamov fu nuovamente sequestrato, era il ’37, come “controrivoluzionario trockista” e spedito a Kolyma. Liberato nel ’51, compromesso al punto che moglie e figlia non lo vollero più vedere, si dedicò totalmente alla scrittura, sua passione fin dalla gioventù. Ma il regime lo obbligò a sconfessare la sua raccolta di racconti; solo nel 1992, a dieci anni dalla morte e con la Cortina di Ferro appena crollata, i connazionali ebbero il permesso di leggere i suoi capolavori.
Meno maestosamente mistico ed enciclopedico di Solženitsyn (autore, ricordiamo, di quell’opera fondamentale per comprendere il secolo scorso che ha per titolo Arcipelago Gulag), Šalamov è a tratti più prezioso giacché il destino della “discesa agli inferi, come Orfeo” gli toccò quando il sistema concentrazionario sovietico era ancora in rodaggio. In Višera ebbe modo di illustrare il processo di espansione ed incattivimento del potere comunista sull’uomo, sperimentato sulla sua pelle. Quando lo scrittore entra per la prima volta in un lager, infatti, vive una realtà ancora limitata a pochi sfortunati avversari politici e criminali comuni.
Due anni dopo, nel 1931 i campi saranno 16 ed ospiteranno già due milioni di persone (i record di sovraffollamento sarà toccato nel primo dopoguerra, ed i milioni saranno svariati). Inoltre si è realizzata la “riforgiatura”: da semplici luoghi di reclusione e lavoro forzato che si mantenevano su livelli quasi umani, i Gulag si sono trasformati in “campi di rieducazione e lavoro forzato”, funzionali ai piani quinquennali voluti da Stalin. La condanna è ora ad “elastico”, gestita su “basi commerciali”. Lo zelo dimostrato sul lavoro, le “percentuali” raggiunte possono accorciare la pena; come il lassismo (o la debolezza) la allungano.
Nasce così il gigantesco complesso di fabbriche dove il crudele motto nazista si realizza veramente: il lavoro (schiavista) rende liberi. Altra differenza con i campi di Hitler, è l’irrazionalità intrinseca del sistema: “nel lager”, comprende Šalamov, “nessuno è colpevole”, perché “a giudicarti sono i detenuti di ieri” o quelli che forse lo saranno domani. Se ad Auschwitz i pretesi superuomini ariani sterminavano gli inferiori israeliti, i campi sovietici sono membra di un mostro che divora sé stesso: capita che gli agenti della polizia politica (la Ĉeka, antenata del Kgb) spesso diventino prigionieri a loro volta, come succede anche ai gestori dei Gulag. Ed è proprio in quella “tremenda corruzione degli animi”, dove si tradisce il prossimo “per un mozzicone di sigaretta od uno sguardo benevolo del superiore” fra delazioni, torture e stupri che lo scrittore capisce che “una persona è viva quando può aiutare gli altri” e di essere stato “chiamato a mettere alla prova le mie autentiche qualità spirituali”.