Un Don Abbondio così coraggioso merita l’onore di una lettura

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Un Don Abbondio così coraggioso merita l’onore di una lettura

24 Ottobre 2010

Debbo immediatamente confessare, nel mio piccolo, un conflitto di interessi: mi onoro di essere amico di Piero Celli, l’autore del ponderoso libro su cui, oggi, vorrei spendere qualche parola. Non soltanto sono amico ed estimatore di Piero, sebbene non ne condivida sempre tutte le idee e le iniziative – l’uomo è un vulcano – , ma mi rammarico assai di riuscire a frequentare troppo poco lui e la sempre radiosa Marina.

Da qualche anno a questa parte, il nostro sta dando sempre più libero sfogo alla sua vocazione di poligrafo (fors’anche con qualche punta di grafomania) e la sua ultima fatica può dirsi emblematica dell’ormai scatenata frequentazione con la scrittura. Sebbene, segnalandomi l’uscita di “Coraggio Don Abbondio”, mi avesse detto sornione che si sarebbe trattato di una serie di raccontini, in realtà – homen nomen – ce(l)liava: il libro è decisamente assai più complesso e impegnativo di quanto affermato e spazia per diversi generi letterari, dal saggio alla poesia, senza tralasciare una sorta di sceneggiatura. Tutto sommato, direi che si tratta di due lavori giustapposti, sostanzialmente di dimensioni equivalenti, l’uno di carattere più marcatamente letterario, l’altro di natura più schiettamente saggistica.

Nella prefazione l’Autore lascia intendere che le vicende intorno a cui narra o discetta nella prima parte del volume, per lo più legate alla fase discendente o critica di una qualche posizione di potere, in primis manageriale, cioè il pensionamento, sono tratte dalla realtà, riferendosi sempre a casi e fattispecie da lui conosciute. Per fortuna il cercare di scoprire chi siano i protagonisti delle diverse situazioni è un passatempo tutto da “nomenclatura” e, quindi, consentito a pochi. Mi sembra, infatti, che questo, pur possibile, approccio “pettegolo” in qualche misura svilisca il valore del libro. Sebbene, come al solito beffardo, sia lo stesso Celli a suggerire questo gioco “perverso”, reputo che una lettura del lavoro coerente con l’impegno profuso dall’Autore nel comporlo sia di approcciarlo come un variegato affresco della commedia umana, in cui il potere o, meglio, un ruolo socialmente riconosciuto – con i piccoli o grandi privilegi connessi -, la sua conservazione e, soprattutto, la sua perdita è da sempre causa di infiniti compromessi e bassezze, ma anche di immensa tristezza (si veda “Non è più la Milano di un tempo”). Quello che mi sembra doveroso sottolineare è la varietà dei toni delle storie narrate, dove non manca il grottesco (“Atterraggi”), ma anche il puro gusto di fare letteratura (“La bella vita”). Nel complesso si coglie, comunque, un fondo di malinconia, un senso di pietas, presente anche nell’inatteso intermezzo poetico – cesura tra le due parti del libro – in cui non manca un tenero ricordo del padre (Spillo n. 2), che mi ha, personalmente, folgorato per la profonda analogia della perdurante realtà del rapporto con mio padre (“Adesso, però, continua a parlare”).

La componente saggistica è ricca di spunti e provocazioni, come il suggerimento di innestare nell’organizzazione dei partiti politici  principi di organizzazione aziendale (“L’impresa può insegnare qualcosa ai partiti?”) o il discettare sulla retorica del merito, da non confondere, ovviamente, con il successo (“I demeriti della liturgia del merito” – “Retoriche del merito”). Il filo rosso dell’insieme dei saggi va, tuttavia, ricondotto a quelle che, con qualche approssimazione, potremmo definire le problematiche dei giovani, della loro istruzione/formazione e del loro ingresso nei processi produttivi.

In effetti il tema dell’istruzione, della formazione, dell’università ritorna quasi in maniera assillante in diverse pagine, al pari delle modalità di inserimento nel mondo del lavoro (“Passaggi di frontiera: dall’università al lavoro”), con la riproposizione di forme di passaggio di testimone tra manager e neolaureati (nella sostanza: il mentoring), non nuove, ma di fatto mai effettivamente praticate nella realtà delle imprese del nostro Paese.

Non mancano un’interessante disamina di due modelli creditizi per quanto concerne iniziative che guardano al sociale (“Anche i cattivi hanno un’anima – talvolta –“), considerazioni amare circa il tema – ben noto a chi ha pratica di vita delle imprese – della granitica ingratitudine manageriale (“Carriere senza gratitudine”), qualche divertita/agra  divagazione sulle mode aziendali, qual è quella sui “talenti” (“Ambivalenza del talento”).

Nel sottolineare, scusandomi per la pedanteria, la necessità di una tirata d’orecchie all’editor del volume, troppo distratto su maiuscole e virgole, desidero, da ultimo, richiamare l’attenzione dei lettori su una frase dell’Autore – pag. 193 -, che la dice assai lunga circa la sua vera vocazione di austero moralista, nascosto dietro la maschera dell’ironia e, talora dell’irrisione, che Piero Celli ama indossare: “Ciò che è diventato superfluo e, anzi, pericoloso è il sopravvivere come uomini liberi, gelosi della propria cultura sociale e della propria autonomia di pensiero; indipendenti da valori emergenti che separano i mezzi dai fini e legano il successo alla capacità di adattarsi e di farsi conniventi”. Ci vuole davvero molto coraggio, Don Abbondio……

Pier Luigi CELLI “Coraggio Don Abbondio” – Aliberti editore, 2009, Euro 17,00