La Chiesa rende omaggio a Porta Pia e rinnova il senso dell’Unità d’Italia
19 Settembre 2010
Ha fatto bene il cardinale Segretario di Stato ad assicurare la propria presenza alle celebrazioni romane del 20 settembre per l’anniversario di Porta Pia, accettando l’invito del sindaco di Roma Alemanno. La notizia ha suscitato malumori in vari ambienti: l’associazione che riunisce gli “atei razionalisti” italiani vorrebbe che Bertone andasse non a Porta Pia, ma… a Canossa; i radicali paventano una nuova ondata di “revisionismo storico” (loro, che sono stati fra i primi a mettere in discussione la categoria di “antifascismo”!). Dall’altra parte, molti cattolici “tradizionalisti” temono che in qualche modo il cardinale svenda le ragioni di Pio IX e dei tanti cattolici che la sera del 20 settembre 1870 – come ricordava Filippo Crispolti nel 1929 – piansero nelle loro case: lo scampanio festoso che in ogni città d’Italia accolse la notizia della presa di Roma e che fece esclamare a Francesco De Sanctis il suo fatidico «Sia gloria al Machiavelli!» fu accolto infatti da milioni di italiani – non bisogna mai dimenticarlo – talora con fastidio, più spesso con dolore muto e duraturo.
Ha fatto bene almeno per due ragioni. La prima eminentemente «politica». Vi è una cultura cattolica certo minoritaria, ma mediaticamente forte, che si attarda in un atteggiamento puramente rivendicativo, leggendo la storia italiana dell’Ottocento solo come un enorme sopruso perpetrato dalle forze liberali e massoniche; che quindi non si riconosce nel successivo impegno dei cattolici nella vita nazionale (da Stefano Jacini, a Sturzo e a De Gasperi) e ignora il sofferto patriottismo di tanti uomini di Chiesa (da Roncalli a Montini). Speculare ad essa è da sempre presente un laicismo aggressivo che vede nel cattolicesimo una specie di cancro della fibra morale del popolo italiano o tutt’al più lo considera come un pittoresco elemento di folklore, da guardare con degnazione, come un inglese dell’Ottocento durante il suo Grand Tour assisteva alle cerimonie della Settimana Santa. Di fronte ad entrambi, Bertone ribadisce che l’Italia, nella sua storia e nel suo presente (che oggi significa la repubblica italiana), è una questione che riguarda i cattolici italiani: eccome! E che quindi rassegnarsi all’idea che l’eredità del Risorgimento sia consegnata alla sinistra culturale e agli ambienti massonici è un harakiri che la Chiesa italiana non può permettersi (come – sia detto per inciso – sembra invece voglia permetterselo il centro-destra italiano: quos Deus vult perdere, dementat prius!). Non foss’altro perché, fra le non molte cose che tengono insieme questo paese, vi è ancora un diffuso «sentire cattolico», vivo anche in ambienti e uomini lontani dalla Chiesa istituzionale; e perché senza o contro questo «sentire cattolico», non è concepibile una qualche idea d’Italia.
Ma vi è una seconda buona ragione di carattere più propriamente storico. Il cardinale ha dichiarato che, nella cerimonia del 20 settembre, pregherà per i caduti dell’una e dell’altra parte: è un modo – cristiano e umano – per riconoscere la dignità degli uni e degli altri. Si è detto e si ripete che la storia italiana è connotata da una permanente “divisività”. Bisogna sempre aggiungere che tale “divisività” si è perpetuata anche perché vi sono stati e vi sono ambienti politici e culturali che su di essa hanno costruito la propria identità e fatto le loro fortune. Ora – detto con consapevole rozzezza – il cleavage papalini/italiani sta al Risorgimento e alla storia successiva dell’Italia liberale come quello fascismo/antifascismo sta alla Resistenza e alla storia repubblicana. Non si ripeterà mai abbastanza che in entrambi i casi non si tratta di dare ragione a tutti: ma che – come ci ammoniva Benedetto Croce – «gli ideali possono ben sceverarsi teoricamente in buoni e cattivi, in superiori e inferiori, ma gli uomini – e la lotta effettiva è di uomini contro uomini – non si possono così discernere e contrapporre, e ciascuno di essi racchiude in sé il vero e il fallace, l’alto e il basso, lo spirito e la materia». Ora dobbiamo ribadire il valore e l’importanza dell’unità d’Italia raggiunta nel 1870, e – nel contempo – comprendere (rispettandole) le ragioni di coloro che la sera del 20 settembre di quell’anno piansero e riconoscere anche a loro la dignità di “italiani” e quasi sempre di “buoni italiani”.
Nel 1944, mentre era impegnato nella lotta di resistenza a Lione, un grande storico francese (che fu anche un profondo pensatore cattolico) Henri-Irénée Marrou dedicò un saggio a L’amour chrétien de la France. L’amore cristiano verso la Francia non ci deve indurre – scriveva – a identificarla solo con la “figlia primogenita della Chiesa”. La Francia merita certamente questo titolo, ma essa non è solo questo. Essa è la patria di non credenti e di materialisti, perché «la Francia è Giovanna D’Arco e Diderot, Corneille e Racine, Pascal e (l’ebreo) Montaigne»: è questa – concludeva – «la patria, che noi amiamo, […] una patria reale, e non solo l’Idea».
Traducendo in italiano questi concetti, si potrebbe dire che non basta amare l’Italia a cui apparteniamo (in senso culturale, politico, geografico e religioso). E’ necessario invece comprendere e rispettare le ragioni anche delle “altre Italie”, saperne scorgere la funzione e il significato nella storia e nel presente del paese. E non per un rugiadoso irenismo, ma per un motivo eminentemente civile: solo così non ci saranno, da una parte, Italiani di serie A e, dall’altra, Italiani da colonizzare o da rieducare, o più semplicemente da detestare.