Sarkò ha commesso molti errori ma in Francia resta l’unico “animale politico”
20 Settembre 2010
È un’impopolarità paradossale quella di Nicolas Sarkozy. Riguarda più quello che è (e rappresenta) o quello che realmente fa (o non fa)?
Dalla batosta alle regionali di marzo i passi falsi o presunti tali si sono sprecati. Su tutti spicca il “tris infernale” Jean Sarkozy-Bettencourt-Rom, (senza aggiungere Clearstream e querelle François Mitterrand). Il Presidente, a venti mesi dalla scadenza del suo mandato, ha davvero il suo destino segnato? Il Ps può cantare vittoria e addirittura rinunciare al suo peso massimo Dominique Strauss-Kahn e puntare ad una candidatura vincente tutta al femminile, la tenace Martine Aubry o la rediviva Ségolène Royal? Più che per i pronostici, il tempo sembra quello giusto per ragionare attorno alle linee di fondo del triennio presidenziale ad oggi trascorso.
Sarkozy è stato eletto nel maggio 2007 sull’onda del tema della rupture. Rottura che il futuro inquilino dell’Eliseo, nel corso della lunga campagna elettorale, aveva saputo declinare da un triplice punto di vista: economico, ideologico e politico. Rispetto all’economia quella proposta da Sarkozy era una chiara rupture di matrice liberale. Rispetto allo scontro delle idee la sua era stata una campagna tutta giocata su temi valoriali forti, a partire dal contrasto con quello “spirito del ‘68”, egemonico nel contesto transalpino, e con l’obiettivo aggiuntivo di recuperare l’elettorato lepenista, confrontandosi con i temi mobilitanti della sicurezza, dell’immigrazione e dell’identità nazionale. Infine da un punto di vista politico la cesura secondo Sarkozy doveva riguardare sia la contingenza, cioè far assolutamente dimenticare l’opaco quinquennio di Chirac, sia l’evoluzione istituzionale, e di conseguenza proporre un Presidente che governa e non che si limita a presiedere o arbitrare, al di là e al di sopra dell’evento quotidiano.
Ebbene Sarkozy su questo progetto è riuscito a raccogliere il sostegno delle cosiddette «tre destre» teorizzate da René Rémond. Quella di matrice bonapartista (poi declinatasi nella sua variante gollista), quella orleanista (centrista e liberale) e quella reazionaria (ordine e sicurezza dell’elettorato lepenista). Una volta però entrato all’Eliseo ha, in pochi mesi, bruciato un capitale di credibilità impressionante e questo è accaduto proprio perché alla vincente teorizzazione non è seguita una corretta declinazione della rupture.
Da un punto di vista politico-istituzionale Sarkozy ha ben compreso che secondo la logica del mandato presidenziale ridotta da sette a cinque anni l’inquilino dell’Eliseo deve fare politica in prima persona e non può limitarsi a dettare le grandi linee per riservarsi gli ambiti della politica estera e della difesa. Il problema è sorto perché Sarkozy ha portato alle estreme conseguenze quest’idea di “Presidente governante” desacralizzando e iper-mediatizzando la figura del “monarca repubblicano”. Mai i suoi più illustri predecessori, nemmeno quelli come Giscard, Mitterrand e Chirac con più scheletri nell’armadio, sono arrivati nemmeno a pensare all’idea del Président people o bling bling. Nonostante una rapida ma comunque tardiva virata, il divorzio pubblico, la nuova travolgente relazione con Carla Bruni e le amicizie nel mondo dell’alta finanza restano una cicatrice che, nell’immaginario collettivo (soprattutto dell’elettorato di destra) ha messo in grave pericolo la credibilità dell’istituzione, più ancora che dell’uomo.
La rupture ideologica è stata soffocata sul nascere sull’altare dell’ouverture. Sarkozy si è mostrato senza dubbio abilissimo nello spedire al Fmi il socialista più pericoloso (Strauss-Kahn), nel coinvolgere in incarichi più o meno ufficiali “padri nobili” della gauche come Michel Rocard, Jack Lang, Hubert Védrine. Ma la vera destabilizzazione si è avuta nelle scelte di ouverture riguardanti il governo, in particolare quelle relative a Bernard Kouchner, Martin Hirsch e Frédéric Mitterrand, con le quali il Presidente è apparso più preoccupato di destabilizzare la sinistra, che di dare espressione a quella sintesi ideologica delle destre così ben riuscita a livello elettorale.
Terzo ambito è quello economico. Su questo punto in realtà l’auspicata “rivoluzione liberale” (impresa titanica in un contesto come quello transalpino, nel quale la parola “liberale” è una specie di anatema), da applicare in particolare al mondo del lavoro, ha incontrato un oggettivo freno nello scoppio della crisi economico-finanziaria mondiale.
Se questa triplice impasse si è immediatamente rivelata, Sarkozy non si è però tirato indietro e si è reso protagonista dell’avvio di una lunga serie di riforme, faticando però nello strutturare un quadro coerente, fatto di priorità e differenti tempistiche nell’attuazione. La Francia si è tramutata in un immenso cantiere a cielo aperto. Regimes speciaux, università, giustizia, sistema ospedaliero, pubblicità nella televisione pubblica, Costituzione, età pensionabile, legge sul burqa, ecc. E’ difficile individuare un ambito nel quale il Presidente non sia intervenuto o non abbia avviato una qualche forma di evoluzione. I risultati però tardano ad arrivare e soprattutto la crisi economica ha finito per spogliare queste riforme delle loro immediate ricadute. Ulteriore paradosso, il Presidente del “quotidiano” oggi è penalizzato proprio perché propone e avvia riforme che potranno mostrare il loro esisto solo nel medio-lungo termine. Sempre più contestato a livello interno l’inquilino dell’Eliseo ha cercato di mantenersi a galla con una politica estera volontarista e di grande impatto soprattutto a livello europeo. L’invenzione del Trattato di Lisbona, la presidenza di turno dell’Ue del secondo semestre del 2008 (con le crisi irlandese e georgiana), l’idea del G20 per gestire la crisi economico-finanziara e pensare ad una governance. Ma il cosiddetto domain reservé del Presidente poche volte, nella storia della V Repubblica, ha avuto ricadute spendibili sul piano politico interno. Da questo punto di vista il caso Rom appare emblematico.
Il Presidente ha senza dubbio aperto la lunga campagna elettorale in vista del 2012 puntando sul tema sicurezza, cercando contemporaneamente di ritrovare l’elettorato di destra e di imbarazzare i socialisti su un tema che tocca innanzitutto l’elettorato popolare. Una vera e propria “offensiva” su questo terreno si è pericolosamente incrociata con la “questione Rom”, querelle europea prima che nazionale. E a questo livello Sarkozy sa di avere margini di manovra molto esigui. Non perché tema di offuscare la sua immagine di europeista o perché il tema possa ulteriormente penalizzarlo a livello interno (anzi i francesi su questo punto appoggiano il Presidente e criticano aspramente la minaccia di deferimento di Parigi alla Corte di Giustizia proposta dalla Commissione). Ma perché non può permettersi di destabilizzare il fragile asse franco-tedesco, troppo decisivo per non infrangere il suo progetto di governo economico dell’Ue.
Se questa è la storia recente, il presente parla di un livello di gradimento presso l’opinione pubblica che non supera oramai costantemente il 35-36%, con un Primo ministro che sorpassa il Presidente di circa dieci punti percentuali. Sarkozy sembra avere ancora due frecce a disposizione, oltre ad una speranza. Su quest’ultimo punto è presto detto: senza un minimo di ripresa economica sarà davvero difficile evitare l’ennesimo “voto sanzione”, oramai un classico della recente storia politica francese. Infatti dalla fine dei cosiddetti Trente glorieuses (1945-1975), ma forse sarebbe meglio dire dall’alternanza socialista del 1981, ad ogni successiva elezione nazionale la maggioranza che ha governato è stata sconfitta. Solo il 2007 ha interrotto questo trend sintomo, insieme a numerosi altri, di un malessere politico che ha radici profonde e metastasi nell’economico e nel sociale. La storia deve però aiutare anche a sfatare il mito del sondaggio negativo oltre la metà del mandato quale segnale di una sconfitta: Giscard a meno di un anno dalle elezioni del 1981 viaggiava oltre il 50%, eppure venne sconfitto da Mitterrand. Quest’ultimo nell’estate del 1984 raggiungeva a stento il 30% di gradimento, eppure sarebbe stato rieletto meno di quattro anni dopo.
Se sulla ripartenza della congiuntura economica mondiale l’inquilino dell’Eliseo può poco, le sue due frecce si chiamano riforma delle pensioni e sostituzione del Primo ministro. Sul primo punto si sovrappongono evoluzioni positive e negative. Il Parlamento sta lavorando a ritmi infernali al testo che dovrebbe essere approvato nella sua versione definitiva entro i primi di novembre. Si tratterebbe di una vittoria, anche simbolica (rottura del tabù dei 60 anni), di grande impatto, con effetti devastanti su una gauche atona su questo argomento. Le incognite e i rischi riguardano invece il ministro più esposto sulla riforma, quell’Eric Woerth così centrale nell’affaire Bettencourt e l’impatto delle prossime mobilitazioni sindacali.
Il secondo punto è un vero rebus politico, che concerne tutta la maggioranza, da intendersi nella sua formula allargata anche ai centristi. Innanzitutto l’opinione pubblica valuta negativamente l’ipotesi di sostituire il Primo ministro. Se Fillon dovesse rimanere a Matignon fino alla primavera del 2012 si tratterebbe della prima volta dal 1958. De Gaulle ha avuto tre Primi ministri in dieci anni, Pompidou due in cinque scarsi, Giscard due in sette anni, Mitterrand sette in 14 (di cui due di coabitazione) e Chirac quattro in dodici anni.
Sarkozy, se vuole lanciare la sua corsa alla riconferma all’Eliseo deve necessariamente procedere ad un ampio rinnovamento della compagine governativa, chiudere con l’ouverture e tornare a pensare alle varie componenti della destra, compresi i centristi fuori dall’orbita di Bayrou e la componente chirachiana dell’Ump, da sottrarre al rivale de Villepin. Per la prima operazione Sarkozy potrebbe puntare su Jean-Louis Borloo, attuale ministro dell’ecologia, ma al governo ininterrottamente dal 2002 e primo candidato per sostituire Fillon a Matignon. Nei progetti di Sarkozy Borloo dovrebbe rassembler tutti i centristi che hanno detto “no” alle sirene di Bayrou, allargando lo spazio asfittico del Nouveau Centre e di conseguenza non essere un potenziale e temibile concorrente per il 2012. Sul versante Ump Jean-François Copé (alla guida dei deputati neo-gollisti e animatore dei club Génération France) e François Baroin (giovane ministro del bilancio dopo il rimpasto di marzo) costituiscono l’avanguardia del riavvicinamento tra Chirac e Sarkozy, anche se una candidatura di de Villepin in chiave antisarkozista è accreditata oggi del 10%.
Insomma se nel passato recente non sono mancati gli errori, nel presente immediato abbondano le incognite. Un dato è però inequivocabile. Se Sarkozy ha mostrato limiti evidenti nella sua azione di governo rimane comunque un “animale politico”, ad oggi unico nel panorama francese, quando deve operare per la conquista del potere. Lo ha dimostrato più volte nella sua lunga carriera politica, dai primi passi nell’RPR, passando per la lunga esperienza di Neuilly-sur-Seine, la conquista dell’Ump e la rincorsa all’Eliseo. La “partita” del 2012 è tutta da giocare. Sarà molto difficile non trovare Sarkozy tra i suoi protagonisti.