“L’Afghanistan non è stufo di noi”
13 Ottobre 2010
Non tanto tempo fa, solo qualche decennio, una parte del mondo si domandò se fosse possibile morire per Danzica. Solo dopo si chiarì quanta incomprensione si condensava in quell’interrogativo.
Non ripetiamo lo stesso errore oggi. L’Afghanistan ha rappresentato uno degli snodi più sensibili del passaggio dalla Guerra Fredda al nuovo mondo. Lì – al tempo dell’invasione dell’Unione Sovietica – si ruppe il fronte islamico, con la parte fondamentalista che divenne protagonista della guerriglia anti-sovietica e gli stati più secolari che confermarono, invece, un’alleanza storica sorta nel dopoguerra, quando il baathismo passò senza soluzione di continuità dal filo-hitlerismo al filo-sovietismo.
Implosa l’Unione Sovietica, venne meno l’elemento che aveva determinato quella divisione e si è creata un’alleanza dal forte, fortissimo significato anti-occidentale. Tanto più forte quanto ci si è sentiti protagonisti dell’abbattimento di uno dei due giganti. Le forze, insomma, si coalizzarono contro l’altro.
Non si comprende l’11 settembre, non si comprende la guerra asimmetrica, non si comprende la portata del terrorismo internazionale se non si capisce questa dinamica. E l’Afghanistan – la guerra in Afghanistan – rappresenta l’epicentro di questa trasformazione geopolitica.
Certo, nessuno vorrebbe dover morire per l’Afghanistan. Soprattutto i cittadini afghani non coinvolti nella guerriglia, i legittimi cittadini di quello sventurato paese che da decadi ormai innumerevoli muoiono a migliaia per il diritto di vivere in pace. Neppure noi italiani, noi europei, noi occidentali vorremo dover morire per l’Afghanistan. Ma neppure vorremmo dover morire al World Trade Center di New York, o alla stazione di Atocha a Madrid o nella metropolitana di Londra, o all’Oberoi di Bombay o per le strade di Tel Aviv o Gerusalemme. Eppure questo tragicamente accade, da decadi.
Neppure i nostri soldati vorrebbero morire per l’Afghanistan e in Afghanistan, eppure anche questo tragicamente accade, e spesso accade anche avendo perso di vista l’evidenza che ci ha condotto su quelle montagne, tra quei valichi, in quei deserti.
La lunga durata della guerra ha reso opachi i suoi scopi e più dolorose le sue perdite. E proprio per questo che l’ultima cosa da fare in queste occasioni è accrescere l’opacità, aumentare la confusione, diffondere incertezza. Mentre la miglior cosa da fare è andare alle radici della nostra presenza in quel paese, ritrovarne le ragioni e guardarle con occhi attenti e se possibili asciutti.
Siamo tutti stufi dell’Afghanistan, come ha detto in uno sfogo più che comprensibile, Luca Cornacchia, uno dei militari italiani ferito nello scontro a fuoco di sabato mattina. Il fatto con cui misurarci però è che l’Afghanistan non è stufo di noi: ha bisogno della nostra presenza per non ricadere in un inferno se possibile ancora peggiore di quello in cui l’ultimo regime talebano lo ha costretto per anni. E noi stessi abbiamo bisogno di quella presenza militare proprio per spostare lì la frontiera più avanzata dello scontro con il terrorismo internazionale e allontanarlo dalla Torre Eiffel o dal Colosseo, dalle nostre case e strade e piazze…
E per altri versi il problema è che i Talebani, i jihadisti più agguerriti non sono stufi di noi. Non si accontenterebbero di vederci abbandonare l’Afghanistan umiliati e sconfitti: vogliono la nostra sottomissione, la nostra resa senza condizioni, le nostre bandiere ammainate e le loro a svettare sull’Occidente o su quel che ne resterebbe.
Una democrazia fa fatica a sopportare perdite per una guerra lontana e difficile. I nostri nemici contano su questo, è il cuore della loro strategia offensiva. Non ci possono battere sul campo, ma ci possono sconfiggere nell’animo, possono renderci stufi, divisi, confusi, irresoluti. Noi qui oggi abbiamo il dovere di resistere, di reggere la sfida, esattamente come fanno i nostri soldati sotto il fuoco dei Kalashnikov, in marcia verso gli obiettivi più insidiosi. A loro prima di tutto dobbiamo la nostra unità e la nostra determinazione. Mentre loro sono lì, noi non abbiamo il diritto di essere stufi.
Possiamo – anzi dobbiamo – esaminare con freddezza le condizioni oggettive dello scontro in atto. Giudicare se le nostre forze sono adeguate, se le condizioni di sicurezza sono assicurate fino al limite del possibile, se le nostre regole d’ingaggio sono aggiornate, se il Pakistan sia o no un interlocutore leale, se le relazioni con gli alleati sono fluide e persino possiamo immaginare le tappe di una possibile exit strategy, concordata e condivisa.
Non c’è eresia in tutto questo. Solo mi insospettisce e un po’ mi amareggia che questi temi, pure cruciali, ci troviamo sempre e solo ad affrontarli sull’onda dei lutti e delle polemiche su di questi. Improvvisamente diventiamo tutti esperti di tecniche militari, di contro-insorgenza, di sistemi d’arma, di bombe e di missili. Come se la guerra in Afghanistan fosse una dato intermittente che si accende e si spegne solo rispetto alla nostra sensibilità o peggio alla nostra inclinazione politica.
Nessuno ha risposte precise sul futuro della missione Nato in Afghanistan: lo stesso Obama e i vertici del Pentagono forniscono risposte diverse, hanno punti di vista discordanti, spesso sembrano impantanati nelle dispute. Anche la Nato va avanti per tentativi, per ipotesi, per approssimazioni.
Lo dico perché ad un certo punto è sembrato che il governo italiano fosse privo di lucidità e di strategia. Non è così. Al contrario da mesi ormai il nostro apporto, purtroppo anche di vittime, alla guerra su quel fronte ha reso l’Italia ascoltata e rispettata. I nostri vertici militari sul campo si sono guadagnati la migliore reputazione e sono considerati un modello di comportamento, di dedizione e di impegno. Siamo oggi nelle condizioni di aver diritto di parola sulla scena internazionale, di proporre le nostre idee e le nostre soluzioni sapendo che verrebbero prese più che sul serio. Ma proprio per questo non troveremo risposte adeguate alle necessità del conflitto se andiamo a cercarle nel risentimento, nello scontro o nella strumentalizzazione.
Il governo, la maggioranza, l’intero Parlamento hanno il diritto di riflettere su di un impegno così gravido di costi e di dolori. Ma hanno il dovere di non lasciarsi sopraffare dalla facile retorica del “torniamo a casa”, perché altrimenti, alla lunga, a forza di retrocedere, potrebbe non esserci più una casa dove tornare.