In Abruzzo aumentano gli alunni stranieri: per loro diritti e doveri
08 Aprile 2011
Il 5% non è un dato da poco, soprattutto se paragonato allo 0,6% di dieci anni fa. Si tratta del numero degli alunni stranieri in Abruzzo: quasi 10mila. E il 5% è il dato dell’incidenza sul totale della popolazione scolastica. Numeri che fanno riflettere e che raccontano un capitolo non ancora scritto sui libri di storia. Un capitolo che potrebbe rivestirsi di mille colori quelli della multietnicità. Ma anche di un solo colore, il nero del ghetto e dell’isolamento.
Perché dietro le cifre che, al di là del fenomeno scolastico, indicano la profonda trasformazione che più in generale sta caratterizzando la nostra società, si nasconde una questione culturale. Per restare nel nostro ambito, l’Abruzzo, è ormai accertato che il numero degli stranieri che risiedono nel territorio aumenta di anno in anno. Culture differenti, religioni differenti, origini e valori differenti. Che devono non solo convivere, ma integrarsi. Un valore e una ricchezza. Almeno sulla carta. Almeno secondo le convenzioni. Perché guai a pensarla diversamente. Il rischio è di essere additati come “razzisti”: una parola impronunciabile, da tapparsi le orecchie. Ma ciò che non si vuole sentire, in realtà, è qualcos’altro. E’ la consapevolezza che un’ipocrisia buonista sta producendo enormi danni e si rifiuta di ammettere il proprio fallimento.
La verità infatti è che presi dall’ansia dell’accoglienza, dell’apertura, della solidarietà non ci si rende conto che l’integrazione è un fenomeno complesso, che deve essere gestito con attenzione, perché il passo verso la ghettizzazione è più breve di quanto si pensi. E di esempi ne abbiamo fin troppi, di culture che ignorano di vivere in contesti diversi da quello di origine. Se la nostra società, infatti, ha il dovere dell’accoglienza, chi arriva deve sentire il dovere del rispetto. Spesso invece il processo di integrazione si ferma a metà e chi viene accolto pretende di continuare a vivere secondo le proprie usanze, anche se inconciliabili con quelle di chi lo accoglie. Così è fallito il multiculturalismo.
Lo ha capito il premier britannico Cameron; lo ha ammesso il Presidente francese Nicolas Sarkozy. E lo stesso ha fatto la cancelliera tedesca Angela Merkel. Laddove la multietnicità, se ben gestita, può rappresentare un’opportunità, il multiculturalismo rischia di provocare risentimento, ghettizzazione e isolamento. Perché la tolleranza non può essere passiva, ma deve essere attiva. La via migliore per promuovere l’integrazione infatti non è quella di accogliere incondizionatamente ma quella di definire gli spazi: diritti e doveri reciproci. Scambio, ma nel rispetto reciproco. Equilibrio, tra conservazione delle proprie tradizioni ed assimilazione abulica alla cultura in cui si vive.
Lasciare alla spontaneità le relazioni tra diverse civiltà è un errore, perché i diritti devono venire dopo i doveri a cominciare da quello di imparare e di rispettare le norme etiche e giuridiche dei Paesi dove si vive. Altrimenti il rischio è di vedere proliferare nelle nostre città nuove comunità, autorefernziali, chiuse, che rifiutano le regole e i codici di comportamento esistenti. Con il risultato di sentirci noi stranieri nelle nostre città.
Questa non è integrazione. Questa è paura, è accettazione, è sospetto reciproco. E’ spianare la strada all’intolleranza. La pacifica convivenza, invece, è possibile ma richiede impegno e lavoro da parte di tutti: le minoranze, le comunità locali e le istituzioni. Siamo partiti dalla scuola, dove certamente le risposte al numero crescente di alunni stranieri non possono essere date solo dall’impegno degli operatori scolastici. Sono necessarie competenze, azioni integrate, specifiche figure professionali, come i mediatori linguistici e culturali. E, di nuovo: regole.
Probabilmente la visione di una società unica è destinata a fallire se ci si affida al buonismo e alla tolleranza passiva. Mentre può rappresentare una grande risorsa se viene realizzata nel rispetto delle regole. Che rappresentano una severità solo apparente, perché in realtà altro non sono che certezze, sicurezze, punti di riferimento per chi ha perso la propria storia e il proprio passato. Per chi fatica a ritrovare la propria identità, di uomo e di cittadino.
Siamo partiti da una cifra: quasi 10mila alunni stranieri in Abruzzo. Facciamo in modo che un domani diventino 10mila cittadini.