Come e perché sta vincendo la “Neolingua”
16 Dicembre 2016
di Luca Negri
Alla luce di com’è andata l’elezione di Trump negli Usa, ma anche pensando a tante altre vicende degli ultimi anni in Europa, riproponiamo per i lettori dell’Occidentale questo articolo pubblicato sul nostro giornale che fa pelo e contropelo alla “neolingua” del politicamente corretto.
Si fa presto a dire xenofobo, a dare dello xenofobo. Soprattutto quando non si hanno le idee chiarissime sul reale significato di un termine ormai più di altri ingiurioso e infamante. Ora è il turno della Finlandia, anche lì si annidano xenofobi. O almeno così pare alle coscienze democratiche e non xenofobe (anzi, come si dice? xenofile?). Lassù in Finlandia, fra tundre e salmoni, lande desolate e umani dai caratteri chiusi (mica espansivi e solari come noi mediterranei) si son tenute le elezioni politiche. Gran risultato di un partito di destra, ha preso quasi il 20 per cento, quintuplicato il risultato di qualche anno fa. Partito con un nome poco rassicurante, lo ammettiamo, e un po’ banalotto: “veri finlandesi” (o “veri finnici” che fa più esotico).
Nel suo programma non c’è alcuna fiducia nelle magnifiche sorti dell’Unità Europea e quel che è peggio nemmeno nella favola bella del multiculturalismo (il suo leader Timo Soni la pensa grossomodo come l’olandese Wilders). E allora basta poco per sintetizzare il tutto con: “ha vinto l’estrema destra”, o “hanno vinto gli xenofobi”. Può pure darsi che Soni, sotto sotto, sia uno xenofobo incallito, che lo siano tutti i “veri finnici” e tutti ma proprio tutti i loro elettori. Avranno forse tracciato la crocetta sulla scheda elettorale con stampato in faccia il ghigno dello xenofobo, losca figura che nell’immaginario di sinistra rappresenta un SS da salotto.
Forse. Perché, insomma, xenofobia significa “paura del diverso”, dello straniero. E non è detto che non voler cedere sovranità nazionale e popolare all’Europa significhi aver paura e provar schifo degli estranei e degli stranieri. Stesso discorso dovrebbe valere per il problema immigratorio: la tutela delle identità locali, delle radici culturali e dell’ordine pubblico non per forza sono dichiarazioni di guerra alla meraviglia della varietà umana. Ma è più semplici liquidare come xenofobe le realtà che non piacciono. Fa anche maggior impressioni alle cene con gli amici non usare più il termine “razzista” e far sfoggio di cultura aggiornata: “ho letto che le destre xenofobe avanzano in Europa”. Così consigliano di fare giornalisti pigri o frettolosi e burocrati (stavamo scrivendo politici, poi abbiamo cambiato idea) interessati.
Si sta diffondendo infatti una nuova “neolingua”, termine di invenzione orwelliana (ovviamente la fonte è il romanzo 1984), ideologica e battagliera. Ne ha scritto lucidamente Roger Scruton nel fondamentale “Manifesto dei conservatori”. Il tentativo sovietico e nazista di “cambiare la realtà cambiando il linguaggio” ha nuovi epigoni più meno consapevoli. Certo meno feroci, forse più subdoli. “La neolingua”, aggiunge Scruton, “interviene ogni volta che il proposito principale della lingua – cioè descrivere la realtà – venga sostituito dall’intento opposto: l’affermazione del potere sopra di essa”. È forse così che da euroscettici si diventa xenofobi; per “intolleranza nei confronti di qualunque opposizione all’agenda fondamentale”.
La neolingua progressista ed eurofila non solo denigra. Preferisce anzi impiegare energie per esprimersi in termini positivi e propositivi. Ad esempio chiama “migranti” quelli che un tempo erano semplici immigrati. Vuoi mettere “migranti”? Subito gli occhi corrono al cielo sognando di vedere il gabbiano Jonathan Livingston. Il pensiero corre fino alla Mongolia, fra gli allevatori nomadi come lo furono i patriarchi biblici. Il migrante è un vagabondo planetario che supera le barriere fra nazioni e culture, barriere già abbattute dalle canzoni di John Lennon. Il migrante è simpatico, eroico, romantico. Non accettarlo accanto è proprio sintomo di carenza di sensibilità, aridità di cuore, prosaico egoismo. Roba da xenofobi, appunto. La realtà, come è noto, è un’altra: i disperati che raggiungono l’Europa hanno poco di romantico, sono costretti ad abbandonare il loro paese per guerre, carestie, sottosviluppo. Avrebbero preferito rimanere a casa loro, invece di sradicarsi, avrebbero preferito opportunità di lavoro nel luogo d’origine. Forse il gabbiano di Richard Bach nemmeno lo hanno letto.
Siamo noi, più che altro che abbiamo bisogno di “accoglienza”. Di darla, offrirla, per dimostrare che siamo evoluti. “Accoglienza” è altra parola magica della neoligua. Il significato originario del verbo è proprio quello del raccogliere. Qualcuno o qualcosa che sta sotto, dunque. Sei lì comodo comodo sul tuo sofà e la tv ti fa sentire in colpa se non accogli o meglio raccogli i dannati della terra che strisciano sulle spiagge. E no, bisogna essere solidali. La “solidarietà” è un altro grande successo della neolingua. Ha ormai scalzato la troppo impegnativa carità. È decisamente più laica e moderna. Etimologicamente rimanda alla solidità, alla compattezza. Solo l’esser solidali (e comprar prodotti equo solidali) dà la forza, il vigore perché regga ancora la baracca dell’umanità. La solidarietà è il solo argine per non farci travolgere da guerre etniche, mica una botta amichevole sulla spalla.
Ci fermiamo qua, anche noi abbiamo giocato fin troppo con le parole. Forse abbiamo anche torto, forse i “veri finnici” sono davvero cattivi e xenofobi. Per nulla solidali, pronti a prenderci a colpi d’ascia. L’unica cosa di cui siamo certi è chi dà con leggerezza dello xenofobo a qualcun altro è solitamente un “oicofobo” (ancora il genio di Scruton a suggerirci il termine): tende a “denigrare usi e costumi, cultura e istituzioni” della sua civiltà originaria”, a nutrire “avversione per la propria casa e per il proprio retaggio”. Parrebbe, l’oicofobia, “fase tipica e normale dello sviluppo della mente degli adolescenti” ma “negli intellettuali tende a divenire permanente”.
(Il meglio dell’Occidentale, 21 aprile 2011)